La Cartapesta Leccese: Arte, Tradizione e Fascino del Salento

La cartapesta leccese rappresenta una delle tradizioni artistiche più uniche e affascinanti del Salento. Questa forma d'arte, antica e leggera, è nata dall'esigenza di decorare chiese e spazi sacri senza ricorrere a materiali costosi come marmo e bronzo. È qui che gli artigiani leccesi, con il loro ingegno e creatività, hanno trasformato la carta in sculture sacre di grande espressività, che sono diventate elementi simbolici del territorio.

 

Le Origini della Cartapesta Leccese

L’arte della cartapesta affonda le sue radici tra il XVII e XVIII secolo. La necessità di rendere sacri e suggestivi gli ambienti delle chiese senza affrontare costi elevati ha stimolato la creatività degli artigiani locali. Questi pionieri della cartapesta utilizzavano materiali poveri, come carta, paglia, stracci e gesso, creando sculture che riuscivano a trasmettere una straordinaria spiritualità.

 

Si racconta che i primi ad appassionarsi a quest’arte furono proprio i barbieri locali, che dedicavano il tempo libero alla creazione di statue sacre nel retrobottega dei loro saloni. Uno dei primi maestri conosciuti fu Mesciu Pietru de li Cristi, un barbiere noto per la produzione di crocefissi, che a sua volta insegnò l’arte a Mastr’Angelo Raffaele De Augustinis e Mesciu Luigi Guerra.

 

Nel tempo, la cartapesta leccese è stata tramandata di generazione in generazione, arricchendosi di tecniche e segreti che ancora oggi rendono unica questa tradizione. Gli artigiani di Lecce hanno saputo mantenere viva quest'arte, permettendole di evolversi senza perdere il suo valore storico e simbolico.

 

Le Tecniche e i Segreti della Cartapesta

La creazione di una statua in cartapesta è un processo meticoloso, che inizia con la modellazione della struttura portante, realizzata con paglia avvolta da spago per formare l'anima della scultura. Le mani, i piedi e il volto vengono scolpiti a parte in terracotta per poi essere applicati alla struttura principale.

 

A questo punto, la statua viene rivestita con fogli di carta, strato su strato, uniti da una speciale colla a base di farina, acqua e un pizzico di solfato di rame, che serve a proteggere l'opera dai tarli. Una volta asciugata, l’opera viene lavorata con piccoli cucchiai arroventati in un processo chiamato fuocheggiatura. Questa fase permette di modellare e consolidare la struttura, conferendole espressività e realismo.

 

Successivamente, si applica il gesso, spesso il gesso di Bologna, per preparare la superficie alla colorazione finale. A completare il lavoro, la statua viene colorata con colori ad olio, e decorata con dettagli precisi per rendere viva e verosimile ogni espressione e piega del panneggio.

I colori sono ad olio, ma c'è chi prepara da sé le cosiddette "terre" (d'ambra, di Siena, cinabro), secondo procedimenti antichi e noti soltanto agli addetti ai lavori.

 

L’economicità del prodotto e la facilità di lavorazione concesse il suo uso per la produzione di calchi, copie e repliche a basso costo: una evidente convenienza che però causò per secoli la classificazione della cartapesta come “opera di ultimo livello” nella gerarchia delle arti, destinandola talvolta alla non conservazione, nonostante l’eccezionale potenzialità e contenuto artistico.

Questa declassificazione però, divenne discutibile anche grazie al Vasari, tra i più strenui fautori della distinzione fra arti maggiori e minori, che non esitò a citare la cartapesta nelle sue “Vite” ( trattato del XVI sec., “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori”) parlandone spesso in relazione ad autori d’eccellenza circonfusi dalla fama. In epoca rinascimentale, creativi d’eccezione come Donatello sperimentavano il prezioso impasto, apprezzandone la malleabilità e la leggerezza, che accentuavano la resa realistica più espressiva e la modulazione più morbida e soffusa delle forme, evocando una spinta indagine introspettiva e spirituale.

 

Dopo Donatello, quasi tutte le botteghe dei più celebri scultori fiorentini si dedicarono alla replica di rilevi di piccolo e medio formato in cartapesta che furono oggetto di una amplissima diffusione: di enorme successo le Madonne con bambino di Jacopo Sansovino, Desiderio da Settignano, Antonio Rossellino e Benedetto da Maiano. Il connubio perfetto tra arte e spiritualità, ha dato origine alle grandi statue e decorazioni del barocco leccese. Ancora oggi la leggerezza di queste statue permette loro di essere trasportate nelle pittoresche processioni della Settimana Santa, che in Puglia divengono vere e proprie attrazioni turistiche.

 

Cartapesta e Spiritualità: Il Museo della Cartapesta

Nel cuore del centro storico di Lecce, il Museo della Cartapesta celebra questa tradizione con una collezione di opere che testimoniano secoli di storia e devozione. Situato all'interno del Castello di Carlo V, a pochi passi da Piazza Sant’Oronzo, il museo ospita circa 80 opere d’arte, offrendo ai visitatori un viaggio attraverso l’evoluzione di questa antica tecnica.

 

L'istituzione del museo nel 2009 ha contribuito a preservare e valorizzare l'arte della cartapesta, rendendola accessibile anche alle nuove generazioni e ai visitatori da tutto il mondo. Passeggiare tra le opere del museo significa immergersi nella cultura e nella storia del Salento, scoprendo il significato simbolico e religioso di queste sculture.

 

 

 

La Cartapesta Oggi: Un’Arte che Vive e si Rinnova

Oggi la cartapesta leccese non si limita più alla creazione di opere sacre, ma si è estesa a una vasta gamma di soggetti e stili. Gli artigiani continuano a creare presepi, statue e riproduzioni sacre, ma le loro botteghe realizzano anche bambole, maschere, decorazioni d’interni e oggetti di design. L’arte della cartapesta è diventata così una forma di espressione contemporanea, in grado di raccontare la tradizione e allo stesso tempo di adattarsi a nuove estetiche.

 

Durante il periodo natalizio, Lecce celebra la sua tradizione artigianale con l’Antica Fiera dei Presepi e dei Pupi, conosciuta come Fiera di Santa Lucia. Questo evento, simile alla celebre San Gregorio Armeno di Napoli, si tiene tra Piazza Sant’Oronzo e Piazza Duomo, dove i visitatori possono acquistare opere di cartapesta realizzate dai maestri locali. La fiera offre un’opportunità unica per scoprire e apprezzare la bellezza della cartapesta e per vivere appieno l’atmosfera natalizia del Salento.

 

Inoltre, durante le festività, l'ex convento dei Teatini in via Vittorio Emanuele ospita una mostra di presepi artistici. Qui si possono ammirare opere realizzate dai maestri cartapestai e dai loro allievi, offrendo ai visitatori un assaggio della passione e della dedizione che animano ancora oggi quest’arte secolare.

 

Un Viaggio nel Salento: Alla Scoperta della Cartapesta Leccese

 

Lecce e il Salento, con le loro tradizioni e la loro storia, sono una meta ideale da visitare in ogni stagione, specialmente in inverno, quando la città si anima con eventi culturali e mercatini di Natale. Passeggiare per il centro storico di Lecce è un’esperienza unica, che permette di immergersi in un ambiente barocco di rara bellezza, tra chiese, palazzi e botteghe artigiane.

 

Un viaggio nel Salento durante il periodo natalizio è l’occasione perfetta per scoprire l'arte della cartapesta, ammirando le opere esposte nelle fiere e nei musei, e acquistando souvenir unici da portare a casa. La cartapesta leccese rappresenta un vero e proprio tesoro culturale che, grazie all’impegno degli artigiani locali, continua a incantare generazioni di visitatori.


Halloween e le Antiche Tradizioni del Salento

Halloween è una festa che trae origine dalle tradizioni celtiche, ma alcune delle sue usanze si sono radicate nel Sud Italia durante la lunga dominazione normanna. Cosa lega Halloween al Salento? Sebbene questa ricorrenza dalle atmosfere spaventose nasca dalle lontane tradizioni dei Celti, non tutti sanno che nel Salento e nel Sud Italia esistono rituali simili, influenzati anche dal periodo normanno e da antiche tradizioni cristiane intrecciate con riti pagani.

Per i Celti, infatti, la notte del 31 ottobre segnava la fine dell'anno e il momento in cui Samhain, Signore della Morte e dell’Inverno, radunava le anime dei defunti, che per un breve tempo si univano al mondo dei vivi. Per evitare che spiriti malvagi potessero entrare nei corpi dei viventi, gli abitanti dei villaggi spegnevano i fuochi nelle loro case, riaccendendoli poi al calar della notte per bruciare offerte e compiere incantesimi protettivi. Per tre giorni, i Celti indossavano pelli di animali per scacciare gli spiriti indesiderati, una pratica che ha influenzato l’usanza moderna dei travestimenti.

Anche gli antenati del Salento e del Sud Italia partecipavano a rituali in onore dei defunti dal 31 ottobre al 2 novembre. In alcune zone del Sud Italia, ancora oggi si preparano doni e dolci per i bambini, raccontando loro che sono stati lasciati dai parenti defunti; in altre si apparecchia la tavola per una cena a cui si crede partecipino le anime dei cari scomparsi. In altri luoghi, si accendono falò di rami di ginestra nelle piazze, e gli avanzi delle cene vengono lasciati all’aperto per i defunti.

Anche l’uso della zucca svuotata e illuminata, simbolo di Halloween, è una pratica che ha radici italiane. Ma perché oggi questa tradizione è maggiormente legata all’America? La risposta è semplice: gli Stati Uniti sono popolati in buona parte da discendenti di europei, e la forte emigrazione dal Sud Italia nei secoli scorsi ha portato molte di queste usanze oltreoceano. Tradizioni come il “dolcetto o scherzetto” sono legate al Sud Italia, e probabilmente si sono consolidate in America perché gli immigrati, trovandosi in una società protestante, sentivano il bisogno di mantenere vive le loro antiche tradizioni cattoliche e pagane.

Il Salento ha una tradizione antica di celebrazioni legate ai defunti che, in certi borghi, ricordano molto i riti di Halloween.

In borghi come Miggiano, Supersano e Presicce era comune preparare banchetti per le anime, come segno di ospitalità. Le persone lasciavano fuori dalle porte o sui tavoli dolci tipici come il grano cotto e i biscotti ossa dei morti per accogliere i propri cari defunti. Anche i bambini ricevevano dolci in dono.

Oggi in alcuni borghi, come Zollino, le tradizioni per la Notte dei Morti sono ancora molto sentite. Le famiglie preparano tavole imbandite in casa con candele accese, cibo e bevande per dare il benvenuto ai defunti. Questa pratica non solo ricorda i cari scomparsi, ma simboleggia anche l’accoglienza delle loro anime. Sempre in questo periodo, una processione si dirige verso il cimitero del paese, dove si accendono candele per illuminare il cammino delle anime.

A Martano, un’altra tradizione viva è quella degli altari domestici in memoria dei defunti, accompagnata da momenti di riflessione e pasti in famiglia con piatti tipici come il grano bollito e i fichi secchi. Le luci e le candele decorative, che adornano le case e le strade, richiamano le moderne zucche illuminate di Halloween.

A Specchia, uno dei borghi più antichi e suggestivi del Salento, le donne preparano ancora i pupurati, biscotti speziati da offrire ai bambini come simbolo della continuità tra le generazioni. Anticamente, qui si accendevano falò per allontanare gli spiriti maligni e proteggere i raccolti, un modo per onorare i defunti e mantenere un legame con il mondo spirituale.

Le tradizioni salentine legate ai morti si intrecciano in modo unico con i festeggiamenti che oggi associamo a Halloween. Sebbene la festa di Halloween abbia avuto una diversa evoluzione altrove, in Salento le celebrazioni del 1° e 2 novembre continuano a tramandare rituali che uniscono il mondo dei vivi a quello dei defunti, in una notte vissuta come un momento di riflessione, rispetto e memoria.

Uno dei luoghi più adatti a ospitare leggende di streghe e spiriti misteriosi in Salento è l’area tra Giuggianello, Giurdignano e Minervino di Lecce, dove si trovano antichi "monumenti naturali" che il tempo non ha cancellato e che vivono ancora nella memoria collettiva.

Questo territorio, paragonato alla famosa Stonehenge per la presenza di dolmen, menhir e pietre sacre, è carico di suggestioni e racconti che ruotano attorno a ninfe, anziane streghe e folletti noti come "scazzamurieddhi." Le campagne locali, con un patrimonio inestimabile, sono state fonte d’ispirazione per storie fantastiche e fiabe tramandate da generazioni.

I Massi della Vecchia, ad esempio, erano la dimora di una strega, detta "la striara," che al calar del sole lanciava incantesimi contro chi osava profanare quel luogo sacro. Chiunque la fissasse era costretto a saltare senza sosta, come narra una vecchia nenia: “Zzumpa pisara cu la camisa te notte…” (“Salta strega con la camicia da notte”), cui risponde la vittima, “se scappu de stu chiaccu nu nci essu chiui de notte...” (se scappo da questo guaio non esco più di notte").

In un’altra versione della leggenda, aiutata da un orco o dal marito, la strega trasformava in pietra chi non sapeva rispondere alle sue domande. Molti caddero nella sua trappola attratti dalla promessa di una gallina dalle uova d’oro, così oggi la zona è disseminata di rocce.

In questa stessa area si racconta di una sfida tra giovani e fate. Un tempo i contadini proibivano ai loro figli di recarsi tra i grandi massi, raccontando che lì apparivano le "fate," creature bellissime ma pericolose.

Anche a Uggiano circolano storie di streghe che, durante il sabba, si riunivano intorno a un "noce del mulino a vento." Si dice che una locandiera del paese, durante una notte di luna piena, lasciò il marito per unirsi a loro. Quando l’uomo si accorse che cibo e vino scarseggiavano, conoscendo il segreto della moglie, si recò al luogo dell'incontro ma sbagliò formula e venne sollevato in aria a testa in giù. La moglie lo salvò pronunciando una formula che lo fece cadere, ma da allora quell’albero è rimasto "segreto" per evitare sfortune. Si dice che si trovi vicino a un antico frantoio ipogeo, ma nessuno è mai riuscito a indicare con precisione la posizione

A Soleto, invece, si racconta che la Guglia degli Orsini del Balzo, una torre affascinante e decorata con figure mostruose, fu costruita in una sola notte da Matteo Tafuri, celebre filosofo ed esoterista. Per l'impresa, si narra, evocò streghe e spiriti, ma all'alba, alcuni di loro, sorpresi dal canto del gallo, rimasero pietrificati nella torre.

Pochi forse sanno che anche a Tricase la cosiddetta Chiesa Nuova (o Chiesa dei Diavoli), fu opera del Maligno, il quale la eresse in una sola notatta, dopo aver stretto un patto con il cosiddetto "Principe Vecchio", che la tradizione popolare identificava in messer Jacopo Francesco Arborio Gattinara, marchese di San Martino, personaggio realmente esistito. Secondo la leggenda i fatti si svolsero in questo modo: intorno alla fine del XVII secolo messer Jacopo decise di favorire i numerosi contadini che lavoravano e vivevano nelle campagne  (e volevano scacciare le Malobre, ossia gli spiriti maligni), costruendo fuori Tricase, sulla via verso il mare, una nuova chiesa, storicamente ultimata nel 1685, a pianta ottagonale, e dedicata alla Madonna doi Costantinopoli. A tale scopo - attraverso il fatato "Libro del Comando" - pensò bene di evocare il Diavolo in persona, peraltro con il segreto intento di prendersi beffe di lui. La sfida proposta dal nobile di Tricase  fu accolta dal Diavolo, a condizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno di Dio, il Principe vecchio avesse poi offerto l'ostia consacrata ad un caprone, simbolo di Satana. Per tale impegno, in aggiunta, il Signore delle tenebre avrebbe lasciato nella Chiesa Nuova un forziere pieno di monete d'oro. Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giorno dopo il Diavolo ricordò la promesa al Principe vecchio, il quale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato il Diavolo sfogò la sua collera aprendo nei pressi della chiesa un canalone d'acqua (chiamato dai tricasini Canale del Rio) e gettandovi all'interno le campane della chiesa, che ancora oggi, nei giorni di tempesta, sembra facciano sentire, risalenti da sottoterra, i loro cupi rintocchi. E il forziere con le monete d'oro? Il Principe vecchio ebbe modo di trovarlo ed aprirlo, ma dentro pare che vi si trovassero delle insignificanti monete di metall vile o addirittura dei sassi.

Infine, la Grotta delle Striare a Santa Cesarea Terme, situata lungo la scogliera tra il Porto di Castro e Porto Miggiano, è una grotta dall'atmosfera inquietante. La leggenda vuole che le streghe si riunissero lì per danzare e creare pozioni. Chi si avventura nella grotta parla di odori pungenti e di rocce scolpite a forma di mani femminili con unghie affusolate, simili a quelle di una strega, che risaltano soprattutto al tramonto con i vapori sulfurei che sembrano provenire da calderoni incantati.

 

Halloween, pur avendo radici celtiche, trova nelle usanze salentine e del Sud Italia una sorprendente affinità, mostrando come le credenze sui defunti e i rituali di passaggio siano diffuse e abbiano resistito, in diverse forme, per millenni. Una tradizione che, in queste terre, continua a prosperare, mantenendosi distante dalla commercializzazione e rimanendo fedele a una cultura che celebra questo mondo con rispetto e reverenza.


Oltre le mura: le quattro porte storiche di Lecce

Il Salento vanta un’affascinante storia millenaria, in particolare nella città di Lecce, conosciuta anche come la "Firenze del Sud". Lecce non è solo un gioiello del barocco, ma un luogo in cui si respira il passato attraverso i monumenti e le antiche mura che un tempo la proteggevano.

In epoca medievale, l'unico modo per entrare nella città era attraverso una delle sue quattro porte monumentali. Questi passaggi, ora importanti testimonianze storiche, rappresentavano non solo l'accesso fisico alla città, ma anche una difesa strategica contro gli attacchi nemici. Alcune porte prendevano il nome dai santi, altre dalle vie che conducevano a importanti destinazioni.

Il sistema difensivo della città di Lecce era stato rafforzato nel XVI secolo per ordine di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, che fece costruire un'imponente cinta muraria per proteggere la popolazione dai frequenti attacchi dei pirati saraceni. Oggi, le tre porte sopravvissute a quei tempi evocano storie di difesa, fede e potere, mentre la quarta, ormai scomparsa, è ricordata come parte integrante di questo ricco patrimonio storico.

 

Le Quattro Porte di Lecce: Uno Sguardo Dettagliato

Le quattro porte di Lecce sono monumenti che hanno assistito a secoli di storia. Tra queste, Porta Rudiae, Porta Napoli e Porta San Biagio sono ancora presenti, mentre Porta San Martino è stata distrutta nell’Ottocento. Esploriamole nel dettaglio.

 

Porta Rudiae: Porta Rudiae prende il nome dall'antica strada che conduceva alla città messapica di Rudiae, oggi un sito archeologico che offre uno spaccato delle radici più antiche del Salento. Mario Cazzato, nella sua “Guida della Lecce Fantastica” (Congedo Editore – 2006), ci informa che nei pressi di Porta Rudiae vi era un tempo l’ingresso alla via sotterranea Malenniana, che partiva dalla piazza e congiungeva la città di Lecce all’antica Rudiae. Situata nell'attuale via Adua, questa porta fu costruita nel XVII secolo sulle rovine di un ingresso medievale ancora più antico.

Lo stile barocco della porta è inconfondibile, con al centro la statua di Sant’Oronzo, patrono di Lecce, che sembra vegliare sulla città dall’alto. A fianco di Sant'Oronzo, le statue di Santa Irene e San Domenico, considerati "protettori minori", si ergono a testimonianza della profonda fede che permeava ogni aspetto della vita leccese. Sui lati dell’arco, anche altre antiche figure degne di nota e rispetto della storia salentina. Queste sono: Malennio, figlio di Dasumno e nipote di Salo; Dauno, figlio di Malennio; Euippa, sorella di Dauno e, infine, Lizio Idomeneo che, secondo la leggenda, avrebbe rifondato e dato il nome alla città. Ognuno di questi personaggi è, molto probabilmente, co-partecipe nella fondazione della città. Dopo il matrimonio tra Euippa e Idomeno, la città leccese passò sotto il controllo dei cretesi, che hanno saputo donare a Lecce e al Salento intero, tanta arte e cultura.

Sebbene l’originale funzione difensiva fosse ormai superata al tempo della sua costruzione, Porta Rudiae venne eretta con un forte impatto estetico, destinata a impressionare più che a proteggere.

 

 

Porta Napoli: L’ingresso orientale della città di Lecce è posto all’inizio della strada che anticamente conduceva a Napoli, allora Capitale d’Italia. La sua costruzione, che sostituì una precedente porta, San Giusto, ordinata dal nobile leccese Loffredo Ferrante e probabilmente realizzata dall’architetto Gian Giacomo dell’Acaya, risale al 1548 ed è stata dedicata all’imperatore Carlo V d’Asburgo, fondatore delle prime difese cittadine.

Porta Napoli è un vero e proprio Arco di Trionfo, caratterizzato da un arco a tutto sesto delimitato da due colonne realizzate in elegante e slanciato stile corinzio. Il frontone centrale rende onore allo stemma della casata degli Asburgo, che costituisce l’elemento architettonico di spicco dell’intera costruzione ed è corredato da raffigurazioni di cannoni e armature romaniche.

L’elogio all’imperatore è completato da una dicitura in suo onore, incisa in lingua latina nella pietra appena sotto lo stemma imperiale. La testimonianza fa riferimento alla sanguinosa battaglia contro i Turchi che nel 1480 devastò l’area salentina, domata per l’appunto dall’imperatore asburgico.

Porta Napoli torreggia imponente su Piazza Napoli, che è recentemente stata oggetto di un’accurata riqualificazione urbana ed è diventata uno dei maggiori ritrovi della movida leccese, oltre che un importante punto di riferimento culturale, data la presenza nelle sue immediate vicinanze di svariati poli universitari.

 

 

Porta San Biagio: Porta S.Biagio, cosi chiamata da un’adiacente cappella medioevale in onore di S.Biagio, patrono dei medici, esisteva già in età rinascimentale, ed era anche allora un punto nevralgico della città: uscita privilegiata per le passeggiate fuori porta dei leccesi verso un luogo extraurbano di delizie: la Torre del Parco, residenza del principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini, ultimo duca di Lecce.

La Porta, che oggi si presenta imponente per chi arriva in Piazza d’Italia da oriente, è la ricostruzione della porta cinquecentesca andata in rovina.

La porta, costruita nel 1774, è caratterizzata da coppie di colonne a fusto liscio poggianti su alti basamenti è sormontata dallo stemma di re Ferdinando IV di Napoli e da quello della città di Lecce duplicato ai lati. Al di sopra della trabeazione si eleva il fastigio di coronamento che accoglie un'epigrafe commemorativa. La scultura di san Biagio in abiti vescovili, completa l'ornamento artistico della porta.

Come accanto alla Porta esisteva una cappella dedicata a S.Biagio, analogamente in prossimità della Torre dei Parco ne esisteva un’altra dedicata allo stesso Santo, a cui il duca Giovanni Antonio Orsini del Balzo era devoto.   Le due cappelle erano in età medioevale tra loro collegate da una strada rettilinea alberata che di fatto inneggiava al Santo.  Questo asse stradale nel 1500 fu abbellito, diventando il percorso preferito per una passeggiata extramurale d’eccellenza.

S.Biagio vissuto tra III e IV secolo d. C., secondo la tradizione nacque a Lecce, ma poi parti per l’Armenia dove diventò vescovo cattolico della città di Sebaste. Morì decapitato per non aver rinnegato la fede cristiana.

 

 

Porta San Martino: nessuno di noi, neppure gli ultracentenari, hanno fatto in tempo a vederla: venne infatti demolita nel lontano 1830. Della “Quarta Porta” se ne ha memoria in documenti della seconda metà del XIII secolo (tra il 1261 ed il 1291).

Dedicata al vescovo cristiano del IV secolo, Martino di Tours, nativo dell’odierna Ungheria, si trovava all’incrocio delle attuali vie XXV Luglio e Matteotti, poche decine di metri dopo la sede del Palazzo del Governo, meglio noto come Prefettura.

Dopo la costruzione della Prefettura, che nell’Ottocento era denominata Intendenza, venne decretata la sua fine, in quanto le autorità del tempo, riunite sotto il nome di “decurionato”, decisero che “la più insignificante delle Quattro Porte cittadine non reggeva il confronto con la bellezza del nuovo edificio”. Porta San Martino fu abbattuta anche come parte di un processo di espansione e modernizzazione della città. All'epoca, molte città italiane iniziarono ad abbattere le antiche mura e porte per agevolare lo sviluppo urbano e migliorare la viabilità. Lecce non fece eccezione, e la decisione di demolire Porta San Martino venne presa per facilitare l’espansione verso l'esterno e per motivi logistici legati alla crescita della popolazione e al traffico cittadino.

A differenza di altre porte di Lecce, come Porta Napoli, Porta Rudiae e Porta San Biagio, che sono sopravvissute alle trasformazioni urbane, Porta San Martino non venne mai ricostruita e oggi non esistono resti visibili di questa antica struttura.

Porta San Martino era la più orientale delle quattro; non a caso guardava a Oriente, ed il suo passaggio indirizzava alla volta della marina di Lecce, San Cataldo.

Di tutte era la più semplice: si presentava come un arco di passaggio per uomini, animali e mezzi, ed era caratterizzata da un’architettura a “bugnato” e dalla merlatura tipica delle costruzioni del Medioevo.

Una sua immagine “essenziale” datata fine Seicento, si trova nell’opera postuma dell’abate romano, Giovan Battista Pacichelli (1634-1695), “Il Regno di Napoli in prospettiva”. In essa, si nota che è situata sull’asse del Castello di Carlo V, ed ha appunto forma ed architettura semplici e lineari.

 

 

Un Patrimonio da Scoprire: visitare Lecce oggi significa immergersi in un affascinante viaggio nel passato, attraversando porte che hanno assistito a secoli di storia e momenti cruciali. Questi imponenti monumenti, un tempo baluardi difensivi, oggi simboleggiano il potere, la fede e l'arte della città. Sono tra le attrazioni più iconiche di Lecce e rappresentano un invito irresistibile per chi desidera esplorare il cuore storico del Salento. Le porte di Lecce offrono un punto di partenza ideale per scoprire l'anima antica e preziosa di questa straordinaria città.


Esplorare le Grotte del Salento: le perle nascoste della costa adriatica e ionica

Le grotte del Salento sono meraviglie naturali assolutamente da conoscere. Si tratta di straordinarie cavità scolpite dal mare, presenti lungo la costa ionica e adriatica, che racchiudono storie affascinanti e leggende misteriose. La natura qui è stata molto generosa, regalandoci numerose grotte, alcune più profonde di altre, che si specchiano nelle acque cristalline creando incredibili giochi di luce e riflessi.

Per questo motivo, se si desidera un'esperienza unica, la cosa migliore è partecipare a una delle escursioni in barca nel Salento, lasciandosi affascinare dalle bellezze marine.

 

Le grotte più suggestive del Salento

Il Salento vanta numerose grotte, ma alcune meritano assolutamente di essere menzionate: di seguito un excursus sulle più belle e suggestive, incastonate sulla costa adriatica e ionica.

 

Grotta della Poesia

La Grotta della Poesia è una spettacolare piscina naturale situata a Roca Vecchia, sulla costa adriatica, nel comune di Melendugno. Lo specchio d'acqua verde smeraldo, circondato da rocce dorate alte fino a 5 metri, rende il paesaggio incantevole, simile ai cenote messicani.

Si tratta di una cavità di origine naturale formatasi con la graduale azione corrosiva dell'acqua, ed è sua volta suddivisa in due parti, ossia la Grotta della Poesia Grande e la Grotta della Poesia Piccola, le quali comunicano fra loro attraverso un cunicolo sotterraneo, e distano l'una dall'altra appena sessanta metri, dove è presente una spiaggia di piccole dimensioni.

La Grotta della Poesia si chiama così perché, a detta di un'antica leggenda, tantissimo tempo fa una giovane donna era solita tuffarsi e farsi il bagno proprio all'interno della suddetta piscina naturale. Era talmente bella da attirare l'attenzione di molte persone, le quali si recavano sul posto per ammirarla. Tra esse c'era un grande poeta dell'epoca, il quale la fece diventare la musa ispiratrice delle sue opere e alcune sono proprio dedicate a quest'ultima. È inoltre importante segnalare il rinvenimento di alcune iscrizioni di origini greche, latine e messapiche sulle pareti, grazie a cui è stato possibile comprendere che la grotta era il luogo di venerazione del dio Taotor.

Questa grotta è parte di uno dei siti archeologici più importanti d'Italia e, per preservarne l'integrità, è stato introdotto un biglietto di circa 3 euro per i visitatori non residenti nella provincia di Lecce.

 

Grotta dei Cervi

Proseguendo lungo la costa adriatica, a Porto Badisco, troviamo la Grotta dei Cervi, un sito archeologico di grande rilevanza. Le pareti della grotta sono decorate con numerose pitture rupestri, realizzate con guano di pipistrello e ocra rossa, costituendo uno dei complessi pittorici neolitici (tra il 4.000 ed il 3.000 a.C.) più importanti d'Europa.

Le figure rappresentano cacciatori, animali (cani, cavalli, cervi), oggetti, simboli magici, geometrie astratte e molte scene di caccia ai cervi (da cui il nome della grotta). Uno dei pittogrammi più famosi del mondo è il cosiddetto Dio che balla, che raffigura uno sciamano danzante .

L'accesso è limitato, riservato a studiosi e giornalisti accompagnati da speleologi qualificati.

 

Grotta Azzurra

Situata a Castro, la Grotta Azzurra è una delle perle dell'Adriatico, raggiungibile solo via mare.

Per esplorare la Grotta Azzurra, i visitatori possono prendere una piccola imbarcazione o un kayak dalle spiagge circostanti e fare una breve escursione fino all’entrata della grotta. La grotta è abbastanza ampia e offre spazio sufficiente per le barche. Mentre si entra lentamente all’interno, la magia si svela quando i raggi del sole penetrano nell’acqua e illuminano l’interno con una luce azzurra iridescente.

L’acqua all’interno della grotta è estremamente chiara, consentendo di vedere il fondale marino e le formazioni rocciose sottomarine con sorprendente chiarezza.

La Grotta Azzurra non è solo uno spettacolo per gli occhi umani, ma anche un habitat importante per molte specie marine. Le pareti della grotta sono ricoperte da alghe e coralli, e il suo ambiente unico offre rifugio e nutrimento a numerosi pesci e altre creature marine. Durante la vostra visita, potreste avere la fortuna di vedere pesci colorati e altre creature che nuotano intorno alle barche.

Queste caratteristiche sono ciò che rendono l’esperienza di nuoto nella Grotta Azzurra davvero unica.

 

Grotta della Zinzulusa

La leggenda della Grotta di Zinzulusa, scoperta nel 1793 vicino a Castro, racconta di un crudele Barone di Castro che, nonostante la sua ricchezza, lasciava la figlia vestita di stracci e fece morire la moglie di dolore. Una fata buona apparve alla bambina, le donò un bellissimo vestito e gli stracci (zinzuli) volarono nella grotta, dove si pietrificarono. Da qui il nome "Zinzulusa". La fata punì il Barone gettandolo in mare, creando un laghetto infernale chiamato Cocito. La bambina, invece, si sposò con un principe buono e visse felice.

Di fatto, la grotta presenta delle particolari formazioni calcaree che pendono dall'estremità più alta, e che appunto la tradizione popolare riconosce essere gli stracci della bambina; inoltre, nel laghetto sottostante, il Cocito, vivono esemplari di gamberetti senza pigmenti e ciechi.  Il nome della grotta deriverebbe quindi dagli avvenimenti richiamati dalla leggenda; secondo invece altre opinioni, esso deriverebbe dal nome greco e arabo di un albero che, un tempo, era molto diffuso nei luoghi: il giuggiolo (detto zinzinusa).  La grotta venne scoperta dal Vescovo di Castro nel 1793, e fu studiato quindi nel corso del novecento. Vi furono rinvenuti numerosi reperti neolitici e paleolitici, oltre che manufatti d'epoca romana e fossili di vari animali come ippopotami, orsi, cervi, felini e uccelli. Fu aperta al pubblico, dopo decenni di esplorazioni e ricerche, solo nel 1957.

Questa grotta carsica, lunga 300 metri, è accessibile via terra solo con guida turistica, che accompagna i visitatori alla scoperta delle sue storie e leggende.

 

Grotte di Santa Maria di Leuca

La zona di Santa Maria di Leuca e limitrofa è ricchissima di grotte, tutte interessanti e diverse l’una dallaltra, ma alcune sono particolarmente degne di nota.

Vicino al Ponte del Ciolo, ci sono le Grotte delle Cipolliane, raggiungibili tramite il Sentiero delle Cipolliane, un antico cammino che unisce la vegetazione mediterranea con il blu profondo del mare.

 

Altre grotte da esplorare in zona includono:

 

- La Grotta del Diavolo, chiamata così a causa dei suoni e dei rimbombi che venivano attribuiti dalla fantasia popolare ai diavoli, è situata a Santa Maria di Leuca, su Punta Ristola, ed è raggiungibile sia via mare e sia via terra.

- La Grotta del Soffio è una grotta “misteriosa”, quasi difficile da individuare se non si conosce la sua esistenza. Il suo nome trae origine dallo strano fenomeno che si verifica al suo interno, a causa degli spruzzi e soffi dell’aria che, rimanendo bloccata all’interno della cavità dalle onde, non fuoriesce regolarmente, dando l’impressione che la grotta “respiri”.

Ciò che rende ancora più affascinante questo piccolo anfratto è il cosiddetto “Effetto Morgana”: l’incontro tra l’acqua salata del mare con quella dolce che sgorga dalle sorgenti presenti nella grotta, crea un’illusione ottica che va a distorcere le immagini a causa della diversa rifrazione della luce.

Per visitare la Grotta del Soffio, un’ottima soluzione sarebbe quella di arrivare all’imboccatura della cavità e aspettare che la risacca creata dalle onde si ritiri, lasciando così aperta l’entrata. Quello sarà il momento giusto per fare una piccola immersione e ritrovarsi nel cuore della grotta sommersa, che rivelerà la sua parte più preziosa e nascosta.

- La Grotta delle tre Porte è sicuramente la più famosa e la più fotografata delle grotte di Leuca. E’ costituita da tre grandi aperture che lasciano intravedere un’immensa cavità. Sulla parete nord del vano interno alla grotta c’è un cunicolo che termina dopo circa 30 mt in un’ampia camera con stalattiti e stalagmiti. In essa chiamata la Grotta del Bambino, fu ritrovato un molare superiore sinistro di un bambino di circa 10 anni risalente all’età neandertaliana. Nel cunicolo invece sono stati ritrovati resti di rinoceronte, elefante antico e cervo.

 

 

Grotte di Porto Selvaggio

Tra le grotte del Salento ionico, spiccano quelle di Porto Selvaggio, tra cui la Grotta del Cavallo, nei pressi di Santa Caterina, importante testimonianza della vita sociale del neolitico. Altre grotte rilevanti sono la Grotta di Uluzzo e la Grotta Capelvenere, famosa per le felci che adornano la sua entrata.

 

Grotta Sfondata di Otranto

Situata nei pressi della Baia del Mulino d’Acqua, così chiamata in ricordo di un mulino ad acqua un tempo situato vicino alla baia,  la Grotta Sfondata di Otranto è un vero paradiso naturale. Prende il nome dal suo caratteristico "sfondamento" roccioso, risultato di un crollo parziale della volta che crea un'apertura verso l'alto. Un bagno all’interno della Grotta Sfondata consente di godere, in acqua sia di zone al sole derivanti dal foro nella roccia che di alcune di ombra.

La scogliera a strapiombo proibisce l’accesso dalla terra, motivo per il quale la località può essere visitata esclusivamente accedendo dal mare.

Per visitarla basterà parcheggiare nella vicina Baia del Mulino d’Acqua per poi giungere nella graziosa spiaggia di Santo Stefano. A questo punto si potrà raggiungere Grotta Sfondata a nuoto o in barca.

 

Grotta Verde

Situata presso la Marina di Andrano, in località “La Botte”, tratto di costa, dove la conformazione della scogliera risulta particolarmente bassa, la Grotta Verde è raggiungibile scendendo la scogliera e nuotando per pochi metri. All'interno, la luce penetra attraverso le fessure creando incredibili riflessi verde smeraldo.

 

 

Le grotte del Salento rappresentano un autentico tesoro naturale, un viaggio tra storia, leggenda e meraviglie paesaggistiche uniche al mondo. Ogni cavità, con le sue acque cristalline e le sue formazioni rocciose scolpite dal tempo e dal mare, racconta una storia che affascina e incanta chi ha la fortuna di esplorarle. Che si ami l’avventura o si sia appassionati di natura, una visita a queste grotte ti regalerà un’esperienza indimenticabile. Non resta che partire alla scoperta di questi gioielli nascosti, immergendosi in un mondo di bellezza e mistero, dove la natura regna sovrana.


Decreto Salva Casa 2024: tutte le novità e modifiche per la tua abitazione

Il Decreto Salva Casa 2024, approvato in via definitiva dal Senato il 24 luglio 2024, introduce un’importante serie di modifiche e semplificazioni volte a facilitare la regolarizzazione delle lievi difformità edilizie e a promuovere la riqualificazione del patrimonio immobiliare. Questo provvedimento si propone di snellire l'iter burocratico, mantenendo al contempo un forte controllo sulla sicurezza degli edifici e il rispetto delle normative vigenti. Vediamo nel dettaglio cosa cambia e quali opportunità si aprono per i proprietari di immobili.

 

Obiettivi del Decreto

L’obiettivo principale del Decreto Salva Casa è semplificare e accelerare il processo di sanatoria delle irregolarità edilizie di lieve entità, che in passato potevano comportare lungaggini burocratiche e costi elevati. Il provvedimento introduce un approccio più flessibile, riducendo tempi e spese per ottenere le autorizzazioni necessarie. Tuttavia, è importante sottolineare che non si tratta di un "condono edilizio", ma di una serie di misure che consentono la regolarizzazione di abusi minori, sempre nel rispetto delle leggi urbanistiche e igienico-sanitarie.

 

Le Principali Novità

1. Abusi su parti comuni e private: Le irregolarità presenti su parti comuni di un edificio condominiale non bloccano i lavori di ristrutturazione di singoli appartamenti, e viceversa. Questo previene problematiche che avevano rallentato interventi come il superbonus in passato.

2. Altezze e superfici ridimensionate: Il decreto introduce deroghe che permettono la costruzione di abitazioni con altezze inferiori ai 2,70 metri, riducendo il limite minimo fino a 2,40 metri per interventi di recupero. Allo stesso modo, sono consentiti monolocali da 20 mq e bilocali da 28 mq, superando alcune restrizioni della normativa del 1975.

3. Cambio di destinazione d’uso semplificato: I cambi di destinazione d'uso diventano più facili, anche senza opere edilizie, e comprendono interventi di edilizia libera. Questo apre la porta a nuovi utilizzi di spazi come i primi piani e seminterrati, agevolando la conversione in unità residenziali in conformità con la legislazione regionale.

4. Pergole bioclimatiche senza autorizzazione: Le pergole bioclimatiche con telo retrattile rientrano ora nell’edilizia libera, eliminando l’obbligo di ottenere un titolo abilitativo, a patto che non creino spazi chiusi permanenti.

5. Sanatoria per vincoli ante 2006: Gli interventi soggetti a vincoli anteriori al Codice dei Beni Culturali del 2006 possono essere sanati, purché autorizzati dal Comune, senza dover richiedere un preventivo accertamento di compatibilità paesaggistica.

6. Tolleranze edilizie più ampie: Per i mini appartamenti sotto i 60 mq, la tolleranza tra quanto autorizzato e quanto realizzato aumenta al 6%, mentre per altre superfici è stabilita su percentuali minori a seconda della dimensione dell'immobile.

7. Sanatoria per immobili del Vajont: Gli immobili ricostruiti nelle aree colpite dalla tragedia del Vajont possono ottenere agevolazioni per la certificazione di agibilità o abitabilità, equiparando il certificato di collaudo a tali documenti.

 

Come Presentare Domanda di Sanatoria

Per chi desidera sanare le piccole irregolarità edilizie, il Decreto Salva Casa 2024 rappresenta un'opportunità unica. La procedura prevede diversi passaggi, tra cui la raccolta di documentazione specifica, come:

- Planimetrie aggiornate dell'immobile.
- Relazione tecnica redatta da un professionista abilitato.
- Dichiarazione di conformità degli impianti, se modificati.

Una volta raccolti questi documenti, la domanda può essere presentata all'ufficio tecnico del Comune di appartenenza, con eventuale pagamento di sanzioni variabili in base alla gravità dell’abuso.

 

Cosa si Può Sanare?

Il decreto consente la regolarizzazione di interventi edilizi realizzati fino al 24 maggio 2024, purché rispettino determinate soglie di tolleranza:

- 6% per immobili sotto i 60 mq.
- 5% per immobili tra 60 e 100 mq.
- 2% per superfici superiori ai 500 mq.

Queste percentuali offrono maggiore flessibilità, agevolando la risoluzione delle piccole difformità che spesso rallentavano le pratiche edilizie.

 

Superamento della Doppia Conformità

Un’altra novità fondamentale del Decreto Salva Casa è l’eliminazione della cosiddetta "doppia conformità" per le difformità minori. Ora, sarà sufficiente che l’intervento sia in linea con la normativa urbanistica vigente al momento della domanda, senza necessità di rispecchiare le regole in vigore al momento della realizzazione dell’abuso.

 

Il Futuro dell’Edilizia Italiana

Il Decreto Salva Casa 2024 segna un passo importante verso una gestione più snella e trasparente del settore edilizio in Italia. Le semplificazioni introdotte, combinate con nuove opportunità di rigenerazione urbana e agevolazioni fiscali, mirano a incentivare interventi di riqualificazione e a migliorare la qualità abitativa del patrimonio immobiliare nazionale.

Per chiunque desideri approfittare di queste novità, è fondamentale affidarsi a professionisti esperti per garantire che gli interventi siano conformi alle normative e che la sanatoria avvenga senza intoppi.


Le antiche Torri Colombaie del Salento: tradizione, architettura e prestigio

Le torri colombaie (o "colombai") sono strutture architettoniche storiche progettate principalmente per ospitare e allevare i colombi e i piccioni, utilizzate in molte culture in diversi periodi storici. L'uso delle torri colombaie risale all'antichità. Strutture simili sono state trovate già presso le civiltà egizia e mesopotamica. Nell'antico Egitto, i colombi erano allevati sia per la carne che per le loro doti di volo come messaggeri. Anche nell'antica Roma, i colombi erano considerati un simbolo di status sociale e venivano utilizzati per scopi simili.
Nel Medioevo europeo, le torri colombaie assunsero una grande importanza, specialmente in Francia, Italia e Inghilterra. In molte di queste nazioni, le torri colombaie erano spesso collegate a castelli, monasteri e residenze nobiliari.
Francia: Le torri colombaie erano conosciute come "pigeonniers" o "colombiers". Il possesso di una torre colombaia era regolamentato per legge ed era associato alla nobiltà. L'allevamento dei piccioni era un'attività preziosa sia per la produzione di carne, che come fertilizzante grazie al guano prodotto dai colombi.
Inghilterra: Erano conosciute come "dovecotes", ed erano anch'esse segni di prestigio. Durante il Medioevo, solo i signori feudali avevano il diritto di costruire una torre colombaia, e spesso queste strutture erano progettate con pareti spesse per proteggere i colombi da predatori come i falchi.
Italia: In Italia, le torri colombaie sono frequenti nelle regioni rurali, e si legano alla tradizione contadina e alla vita agricola.
Tipica del paesaggio rurale sin dal medioevo, la torre colombaia era pensata per allevare columbidi. Tale attività aveva soprattutto scopi alimentari, data la capacità che questi volatili hanno di riprodursi anche sei volte l’anno e la considerazione in cui una volta era tenuta la loro carne. Ma queste bestiole erano allevate anche per addestrare i falchi da presa, come confermato da Federico II nel suo ‘De ars venandi cum avibus’. I colombi servivano pure a produrre guano, eccellente per concimare i terreni e, stante una sostanza a base di azoto contenuta, per conciare le pelli. E ancora più utili si rivelavano questi animali, già dai tempi degli Egizi e dei Persiani, per la capacità che possiedono –effetto di un innato potentissimo senso di orientamento – di spiccare il volo con un breve messaggio attaccato alle zampine, di consegnarlo a distanza anche di centinaia di chilometri e di ritornare infallibilmente alla base.

Le prime torri colombaie in Salento sono state create su resti di strutture di età messapica: ne è un esempio l'Ipogeo di Torre Pinta a Otranto, che nacque come insediamento messapico per uso cimiteriale, come testimoniato dai resti di un forno dove avvenivano le cremazioni e i sacrifici e dalle numerose nicchie lungo le pareti utilizzate per ospitare le urne cinerarie; successivamente fu convertito in colombaia[1]. Durante il XVII secolo, al di sopra dell'ipogeo fu innalzata una torre[2], anche per sopperire al crollo di parte della volta: anche questa fu adibita a colombaia, il cui massimo utilizzo fu durante l'epoca borbonica quando venivano allevati piccioni viaggiatori da impiegare nella Terra d'Otranto.
Ad Ugento, in località Cupelle, caratterizzata dalla presenza di antiche cave di pietra calcarea, troviamo nei vari affioramenti rocciosi, i segni di estrazione ancora visibili, che permettono di ipotizzare che i blocchi estratti, di notevoli dimensioni, siano stati messi in opera nella vicina cinta muraria messapica. In uno di tali affioramenti è stata scavata un'ampia colombaia rupestre, probabilmente di epoca medievale o moderna cui si accede da ovest mediante un'apertura larga m. 1 ca..
La colombaia, di pianta ovale, era destinata all'allevamento intensivo dei colombi e le nicchie, che accoglievano i volatili e che traforano tutte le pareti, disposte su otto file, sono a prospetto quadrangolare, con il lato superiore leggermente voltato. Verso est, un corridoio conduce all'esterno; lungo di esso, sul lato settentrionale, si apre un altro ipogeo. E' chiamata “Grotta di Polifemo” per via della grande apertura circolare posta sul soffitto, che la fa assomigliare ad un grande occhio. Questo grande foro serviva per consentire l’ingresso ai volatili che nidificavano all’interno delle nicchie.

Monumentali torri colombaie a base circolare o quadrangolare attestano l’attività umanizzatrice che interesserà il paesaggio rurale salentino nel corso dei secoli. È intorno alle metà del Cinquecento che si costruiscono le più belle torri colombaie, nella stessa epoca in cui si registra in Terra d’Otranto il massimo sviluppo dell’economia agricola e il momento più significativo delle realizzazioni architettoniche in ambiente rurale. La loro diffusione storica sarà così massiccia che il toponimo Palumbaru identificherà intere località in diversi feudi dei borghi di Terra d’Otranto, proprio ad attestare la presenza di queste singolari costruzioni anche in aree dove ormai non ne rimane più alcuna traccia. Una presenza confermata anche dai documenti archivistici, dai quali emerge pure l’importanza dell’allevamento dei colombi, la disciplina che ne regolerà la caccia o la tutela, il ruolo che questi pregiati volatili avranno nell’economia delle nobili famiglie di Terra d’Otranto. Dell’allevamento dei colombi se ne occupò persino la regina Maria d’Enghien, che nel suo Codice dichiarava, quasi minacciosa “che nulla persona ausa occidere, o menare con balestra, oy con archi alli palumbi de palumbaro. Né pigliare dicti palumbi con riti, oy costule, excepto se fusse patruno. Et chi nde fara lo contrario cadera alla pena de uno augustale”. Concetto ripreso in toto nei Capitoli della Bagliva di Galatina (1496-1499), ma anche nei Bandi Pretori di Torchiarolo (1667) e Novoli (1716), dove si elencano le severe punizioni per chi cerca di catturare o uccidere i colombi allevati, che partivano da un minimo di 15 giorni di carcere. Tutto questo ci fa capire il grado di considerazione che aveva questo allevamento, ed il commercio che ne conseguiva. Commercio che girava nelle mani del nobile o del potente ecclesiasta proprietario terriero di turno. Soltanto nel 1789, con la caduta dei privilegi feudali ancora vigenti fin allora in Terra d’Otranto, i contadini acquisirono il diritto di uccidere i colombi che vedevano razzolare sui loro campi seminati.

L’edificazione di tali architetture è strettamente connessa ad una serie di fattori.

Valenza diplomatica: i piccioni viaggiatori permettevano ai regnanti di mantenere rapporti economici e doplomatici con tutto il bacino del mediterraneo, a partire da Venezia, sino a Castantinopoli. La posizione favorita del Salento nel Mediterraneo gli permetteva di essere un "fulcro comunicativo", e proprio per questo il numero di torri colombaie è molto alto; ne sono state censite ufficialmente circa 200.

Valenza economica: nell’allevamento dei colombi, l’uomo sfrutterà le abitudini di questi volatili costruendo edifici particolarmente favorevoli alla loro nidificazione e, al contempo pratici e funzionali nella fase del prelevamento degli esemplari più giovani. Privilegio in epoche passate della nobiltà e del clero, la carne del colombo, infatti, per le sue particolari proprietà nutrizionali, sarà fondamentale nell’alimentazione di bambini, anziani e puerpere. Il valore economico delle torri colombaie non deriva però, soltanto dalla possibilità di poter allevare migliaia di colombi e quindi dalla grande disponibilità di carne pregiata, ma anche dall’enorme quantità di columbina che si accumula all’interno delle torri stesse. Oltre ad essere un ottimo fertilizzante, troverà vasto utilizzo nella concia delle pelli.

Valenza difensiva: le grandiose dimensioni di questi monumenti architettonici e la loro collocazione molto spesso isolata e in posizione appartata rispetto al complesso edilizio della masseria, non è certo casuale. Se già l’edificio turriforme della masseria ha la funzione di scoraggiare eventuali assalitori, un secondo edificio a forma di torre, dai volumi severi, viene concepito per suggerire l’idea di una ulteriore opera di difesa del territorio e quindi dell’insediamento. Si potrebbe così giustificare anche l’imponenza di queste costruzioni, soprattutto laddove il fabbricato della masseria si presenta con volumi modesti e privo di elementi per la difesa.

Valenza simbolica: oltre ad essere parte integrante della struttura economica della masseria, la colombaia diviene vero e proprio veicolo di comunicazione di uno status sociale. È proprio sulla colombaia che il proprietario terriero comunemente colloca il suo stemma, fa incidere la data della costruzione e ne sintetizza gli scopi della realizzazione.

Isolate o poco distanti dal complesso masserizio, altre volte inglobate in giardini chiusi, sono costruite secondo parametri ben precisi di larghezza ed altezza per favorire l’accesso dei colombi e per proteggere le nicchie dagli agenti atmosferici.Le tecniche di costruzione, storicamente codificate, prevedono un’altezza di poco maggiore alla lunghezza del diametro e ancora, come spiega il Milizia: “la loro altezza non vuole essere assai grande per non difficoltare ai genitori il trasporto del cibo ai loro parti; può stare dal duplo fino al quadruplo della loro larghezza. La capacità di questa camera deve essere mediocre; se è troppo ristretta, vi si concuoce tutto nell’estate; se è troppo grande, quei volatili vi soffron freddo nell’inverno: il suo diametro può essere da 16 fino a 24 piedi”. Le colombaie sono costruite in blocchi di tufo squadrati, prive di copertura e dotate di una sola apertura, raggiungibile con una scala a pioli, ad alcuni metri dal piano di campagna per evitare l’accesso dei predatori feroci; rampe di scale (da 7 ad 8) si sviluppavano lungo le pareti interne con andamento elicoidale, sporgenti come mensole dal parapetto murario; cordoli in rilievo si collocano al di sotto dell’apertura per ostacolare la scalata di rettili; merlature, cordoli a sbalzo, cornici aggettanti, oltre che avere una funzione decorativa, fungono da "appollatoi" per i colombi in uscita ed entrata dalla torre stessa. La tipologia a pianta quadrata è probabilmente una conseguenza del terremoto del 1743: in seguito alla distruzione di buona parte del patrimonio edilizio rurale, si avvia la ricostruzione anche delle torri colombaie con forme e tecniche più semplici. Si tratta in ogni caso di una tipologia legata ad epoche più recenti.
In particolar modo le masserie, con la loro ampia volumetria, permettevano di trovare anche soluzioni alternative più economiche rispetto alla classica torre, e spesso troviamo colombai inglobati nei loro strati murari, nelle loro corti interne, o in alcuni casi inseriti nella torre della stessa masseria.

La torre colombaia più grande del Salento è quella di Carpignano Salentino: con i suoi 12 metri di altezza e 62 di circonferenza, in agro di Carpignano Salentino, in zona Cacorzu, a due passi dal santuario dedicato a Santa Maria della Grotta, del ‘500, edificato sopra una cripta intitolata a San Giovanni Battista. E’ stata realizzata sul finire del ‘400 e poteva contenere all’incirca 5000 coppie di colombi, i quali avevano la possibilità di nidificare in altrettante cellette. Alla base una piccola porta, unico accesso alla torre se si escludono le piccole finestrelle dalle quali si intravede l’ipnotico gioco circolare di cellette, sovrastata dallo stemma degli Orsini del Balzo.

Una delle torri colombaie più antiche del Salento è quella appartenente alla Masseria Celsorizzo, situata ad Acqaurica el Capo. A trenta metri dal complesso masserizio di Celsorizzo è una torre colombaia, a pianta circolare, databile al 1550, come riportato dallo stemma gentilizio dei Guarini e dall'iscrizione posta sulla porta di accesso: FABRICIUS GUARINUS / HOC FRUCTUS AUCUPANDIQUA CAUSSA / CONSTRUXIT SIBI AMICISQUE - ANNO D.NI MDL. - "Fabrizio Guarino fece costruire questa colombaia per sé e per i suoi amici per diletto di caccia. Anno 1550".
La torre colombaia è divisa esternamente in due livelli da un cordolo a superficie piatta. Un toro marcapiano cinge la torre a mezzo metro dal piano della campagna: a questa altezza nasce l’accesso all’interno della colombaia, interno realizzato con le buche per i colombi e le scalette con i gradini sporgenti dalle fiancate.

 

Uso attuale delle torri colombaie nel Salento
Oggi, le torri colombaie del Salento non sono più utilizzate per l'allevamento dei colombi come nel passato. Tuttavia, queste strutture hanno trovato nuovi usi, principalmente legati al turismo, alla conservazione e al recupero architettonico.

1. Recupero architettonico e conservazione
Molte torri colombaie nel Salento sono state restaurate e conservate per preservare la loro valenza storica e culturale. Grazie a fondi pubblici e privati, queste torri vengono salvaguardate come parte del patrimonio rurale della regione, evitando il rischio di abbandono o degrado.

2. Turismo e agriturismo
In alcuni casi, le torri colombaie salentine sono state riqualificate e trasformate in alloggi turistici o strutture legate all'agriturismo. In particolare, molte masserie che oggi fungono da agriturismi o bed & breakfast hanno restaurato le colombaie per offrire ai visitatori uno scorcio del passato rurale del Salento. Questi edifici, che rappresentano l'architettura tipica del luogo, vengono valorizzati come simbolo della storia e della cultura agricola salentina.

3. Usi culturali e artistici
Alcune torri colombaie sono state trasformate in spazi culturali o artistici. Ad esempio, in alcune località del Salento, torri restaurate ospitano mostre d'arte, eventi culturali o sono utilizzate come spazi espositivi per promuovere la cultura locale e le tradizioni salentine.

4. Conservazione della fauna
In alcuni casi, le torri colombaie sono state preservate anche per favorire la conservazione delle specie di uccelli che vi nidificano. Sebbene non si allevino più colombi per scopi economici, le torri possono ancora servire come habitat per uccelli selvatici, diventando così parte di progetti di conservazione della biodiversità.

Un ponte tra passato e presente
Le torri colombaie del Salento, una volta utilizzate principalmente per la produzione di carne e fertilizzanti, oggi rivivono grazie alla loro importanza storica e culturale. Queste strutture non solo testimoniano il passato agricolo della regione, ma contribuiscono anche allo sviluppo del turismo sostenibile, rafforzando il legame tra la storia rurale e il presente moderno del territorio.


Il Tarantismo: tra mito e realtà, rituali e danze nel Salento

È alla cultura greca che alcuni studiosi fanno risalire l’origine dell’arcaico rito coreutico-catartico del tarantismo, in cui una persona si dimena al ritmo della musica sino a liberarsi dal veleno del ragno che, in teoria, l’ha morsa. Vi è chi l’avvicina alle menadi greche, chi al mito della vergine tessitrice trasformata da Atena in ragno, Aracne; vi è ancora chi riconosce una probabile derivazione greca, ma non menadica, e chi sottolinea, invece, i presunti legami del tarantismo con lo scontro tra due culture – quella islamica e quella cristiana – ai tempi delle crociate, quando il Salento era terra di approdo e partenza per i cavalieri diretti verso le “terre degli infedeli”.

Ma, al di là delle origini incerte, che forse potrebbero contemplare ciascuna delle ipotesi formulate dagli studiosi, cosa è davvero il tarantismo? E come venne percepito nel corso dei secoli?

 

Le prime comparse del fenomeno

Del tarantismo già si parla nel periodo compreso tra il IX e il XIV secolo, e il più antico documento che fornisce una testimonianza a tal riguardo è il Sertum papale de Venenis, redatto nel 1362, il quale afferma che «coloro che sono morsi dalla tarantula traggono massimo diletto da questa o quella musica». A parlarne sarà, negli stessi anni, anche il medico Cristoforo degli Onesti in un trattato, De venenis, e perfino Leonardo da Vinci inserirà il fenomeno tra le sue riflessioni.

A quell’epoca il tarantismo si era ormai diffuso in tutta l’Italia meridionale, in forme a volte leggermente diverse tra di loro (per esempio la giocosa tarantella napoletana), e prevedeva il ricorso a danze vivaci e ritmate per guarire il morso di un ragno, che sembrava colpire particolarmente le donne. Tramite la musica si cercava perciò di curare chi mostrava i segni di un’intossicazione da veleno di ragno.

Per questo, nel corso della storia, alcuni scienziati si concentrarono più l’aspetto della terapia musicale, ossia sugli effetti che la danza e la musica avevano sul corpo e sulla mente, mentre i medici indagarono il carattere della malattia e le cause di tale disturbo. Si chiesero infatti se alla base delle persone cosiddette tarantate vi fosse uno stato tossico derivante dal morso di un aracnide o fosse, invece, un disordine di natura psichica. Perché, se da un lato è vero che ragni quali il Latrodectus tredecimguttatus o la Lycosa tarantula potevano, con un morso, indurre contrazioni e spasmi muscolari, era pure strano che tale fenomeno affliggesse prevalentemente le donne. E d’estate, a lavorare nei campi o con le foglie di tabacco, non vi erano solo le figure femminili, ma anche gli uomini, che più spesso sembravano immuni allo stato di trance, allucinazioni e spasmi.

Il discorso si complicò ancor di più con l’intervento della Chiesa, che cercò di “addomesticare” al culto di San Paolo quello che pareva essere un rito pagano: richiamandosi agli Atti degli Apostoli, in cui si afferma che san Paolo uscì indenne dal morso di una vipera, e calendarizzando la festa di guarigione definitiva al 29 giugno, giorno del santo, cercò quindi di unire fede e superstizione, paura e speranza. E così, nelle pratiche del tarantismo, studiate e documentate a Galatina (Lecce) dall’etnologo Ernesto De Martino e dalla sua équipe nl rito del tarantismo.

In cosa consisteva quindi il rito? Come testimoniano De Martino nelle zone più povere e arretrate del Salento, alcune donne iniziavano a percepire i sintomi del morso: malessere, isterismo, convulsioni. Per cercare di guarirle si praticava una sorta di esorcismo musicale-coreutico casalingo, svolto allora il 28 giugno: le tarantate erano disposte in un vano oscuro della casa – nei primi tempi il rito avveniva all’aperto –, e giacevano su lenzuola adagiate sul pavimento. Accanto a loro erano collocati un cestino per le offerte e immagini di san Pietro e san Paolo dai colori vistosi. Non solo: le tarantate – erano sempre perlopiù donne – potevano scegliere un fazzoletto da legare in vita o tenere in mano, di un colore simbolico: rosso, o verde, o blu. Questo richiamava il colore dell’aracnide che, in teoria, le aveva fatte ammalare. Da lì partiva la musica, in genere rappresentata da un violino, una fisarmonica e un tamburello, strumenti tipici della zona. Gli esperti suonatori intonavano le prime note di una pizzica, o di una tarantella, e la tarantata iniziava ad agitarsi solo al ritmo della composizione che sentiva consona a eliminare il suo malessere. Si dimenava quindi nello spazio del lenzuolo, si alzava, si rotolava a terra, con movimenti convulsi e volti a eliminare il veleno (reale o simbolico). A volte riusciva a guarire, spesso no. Si rivolgeva quindi a un’effigie di san Paolo, dialogandovi e chiedendo quale potesse essere la cura per il suo stato. Da fuori la gente assisteva a tale sfrenata danza.

Il 29 giugno, il giorno seguente – siamo sempre a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta –, donne malate confluivano da tutto il Salento alla Cappella di San Paolo a Galatina, dove bevevano dal pozzo l’acqua destinata a far scomparire i sintomi. Si assisteva a scene di delirio, malessere, urla, in gran parte funzionali al rito di guarigione. Seguivano poi le feste, a ritmo della musica. Alcune donne si riavevano, altre si preparavano a essere morse di nuovo l’anno seguente. Cosa c’era dietro il tarantismo?

Le spiegazioni al fenomeno del tarantismo potevano e possono essere molteplici: escluso probabilmente il morso da parte del ragno, De Martino suggeriva che potesse essere legato a uno stato di malessere interiore, all’infelicità per le condizioni di vita infime, al bisogno d’attenzione. Nella psichiatria si riteneva e ritiene che potesse essere associato pure a conflitti latenti dell’inconscio e a una costrizione di tipo morale: alcuni fenomeni e coincidenze tipici del tarantismo, tra cui la giovane età delle malate, la recrudescenza ciclica, l’ora del giorno in cui sarebbe avvenuto il morso (le dodici) e l’esorcismo avvenuto grazie alla musica e a san Paolo.

Al di là delle vere cause che spingessero le tarantate, del tarantismo autentico sono rimasti il ritmo meraviglioso che continua a coinvolgere ed esaltare, le melodie travolgenti, nonché l’effetto catartico e liberatorio che solo pizzica e tarantella riescono ancora oggi a sprigionare.

 

La Cappella di San Paolo e il mito del Tarantismo

Tra le numerose Chiese che troviamo a Galatina, merita una certa attenzione la Chiesa di Pietro e Paolo, santi patroni della città, situata a pochi passi dal centro. La Chiesa è stata completamente restaurata, ma è ancora un’importante testimonianza artistica e storica di notevole spessore.

Nelle adiacenze della Chiesa, si trova la Cappella di San Paolo, conosciuta dai più come Cappella delle Tarantate, ed è un edificio di culto risalente al XVIII secolo incorporato al Palazzo Tondi, nel centro di Galatina. Piccola e semplice architettura, presenta una facciata semplice, in stile barocco-leccese.

La leggenda vuole che gli Apostoli Pietro e Paolo, durante il loro viaggio in giro per il mondo, si fermarono a Galatina e furono ospitati da un pio galatinese nella propria dimora, che sorgeva dove oggi si trova la Cappella. Per ringraziarlo della cortese ospitalità, San Paolo conferì all’uomo e ai suoi discendenti il potere di guarire tutti coloro che fossero stati morsi dai ragni velenosi, definiti in dialetto “tarante”. Semplicemente bevendo l’acqua del pozzo, posto all’interno del cortile della casa e facendo il segno della croce sulla ferita, si poteva sconfiggere questa brutale malattia.

All’interno della chiesetta, nell’unico altare in pietra leccese, è degno di attenzione il dipinto San Paolo e il tarantolato del pittore ruffanese Saverio Lillo (Ruffano 1734 – ivi 1796). La tela è una delle ultime opere del pittore: in basso a destra vi è la firma e la data. La composizione è dominata dalla figura di San Paolo avvolta da ampi panneggi, la quale si staglia sullo sfondo raffigurante , un tratto di costa, dove campeggia, a sinistra sull’alta linea dell’orizzonte, una vela. Il luminoso, severo volto del santo, delineato da una nera barba e folta capigliatura, è diretto verso lo spettatore. La mano sinistra regge il manto e sul braccio è appoggiata una lunga spada, mentre la destra indica un angelo che regge un grosso libro aperto, sulle cui pagine ci sono dei riferimenti alle lettere scritte dall’Apostolo agli Efesini, Romani e Corinzi. La singolare narrazione pittorica di Saverio Lillo è in relazione con il fenomeno del tarantismo: sulla sinistra in primo piano un uomo malato (tarantato), mollemente adagiato, è sorretto da una donna ed è nell’attesa di bere l’acqua prodigiosa del pozzo offerta da una donna inginocchiata, la quale stringe tra le mani un secchiello legato ad una fune. Il dramma dell’uomo è forse dovuto alla serpe, allo scorpione e alla tarantola, animali velenosi raffigurati proprio vicino ai suoi piedi e a quelli di San Paolo. Nel dipinto, inoltre, compaiono elementi che alludono all’episodio dell’Apostolo sull’isola di Malta: in alto a sinistra, sulla linea dell’orizzonte, si scorge una barca a vela, mentre la vipera strisciante è a destra, in prossimità dei piedi del Santo. I numerosi dettagli iconografici nel dipinto (il tarantolato sorretto da una donna, il secchio con l’acqua prodigiosa attinta dal pozzo galatinese, gli animali velenosi), dovevano illustrare ai devoti le capacità taumaturgiche del santo guaritore dai morsi velenosi.

Anche l’altro dipinto murale di San Paolo, situato nella nicchia della seconda vera del pozzo miracoloso (nel cortile del palazzo), è riconducibile agli stilemi del Lillo: dall’analisi stilistica con altre opere del pittore, si è riscontrato che l’espressione del volto del santo corrisponde ai lineamenti tipici adottati dall’artista ruffanese. È presumibilmente coevo alla tela (1795) posta nella cappella. Classicamente composta si presenta la figura di San Paolo: posto sempre in piedi, con la mano sinistra che regge un libro e una spada, mentre l’altra è alzata vero il cielo in segno di predicazione.

 

Il fenomeno del tarantismo rappresenta un intreccio complesso di credenze, rituali e pratiche che hanno attraversato i secoli, riflettendo non solo le condizioni sociali e culturali del Salento ma anche l'interazione tra tradizioni locali e influenze esterne. Sebbene le origini esatte del tarantismo restino avvolte nel mistero e le sue interpretazioni varino tra spiegazioni scientifiche e culturali, ciò che emerge chiaramente è la funzione catartica e liberatoria di questo rito. Le danze e le melodie che hanno accompagnato le tarantate sono diventate simbolo di una tradizione viva e pulsante, capace di evocare e trasmettere l'intensità emotiva e il dinamismo dI quei tempi.

 

La Cappella di San Paolo a Galatina, con la sua storia e le sue leggende, rimane un testimone prezioso di questo patrimonio immateriale, custodendo l'essenza di una tradizione che ha saputo evolversi e resistere nel tempo. Attraverso l'arte e la musica, il tarantismo continua ad affascinare e coinvolgere, offrendo uno spaccato della resilienza e della creatività umana di fronte alle difficoltà e alle incertezze. Così, anche se le spiegazioni scientifiche possono aver chiarito alcuni aspetti del fenomeno, il fascino e la potenza evocativa della pizzica e della tarantella persistono, mantenendo viva una parte fondamentale della cultura salentina.

 


Le Bagnarole: testimoni della Belle Époque in Italia e nel Salento

La Belle Époque in Italia è un periodo di prosperità e innovazione, che va dagli ultimi decenni dell'Ottocento fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914. Caratterizzato da cambiamenti sociali, economici e culturali, questo periodo coincide con lo sviluppo industriale, il progresso tecnologico e il rinnovamento artistico. L'Italia vede un'accelerazione dell'industrializzazione, un'espansione delle infrastrutture ferroviarie e una crescita delle città come centri economici e di innovazione. Novità tecnologiche come l'elettricità, il telefono e l'automobile trasformano il paese, mentre la crescita della borghesia urbana e della classe media porta a miglioramenti nelle condizioni di vita. Sul piano culturale, il movimento artistico del Liberty influisce su architettura e design, mentre letteratura, musica e teatro fioriscono. Le città italiane diventano importanti mete turistiche per l'élite europea, contribuendo allo sviluppo del turismo.

In particolar modo il turismo balneare inizia a prendere piede, trasformando le coste in luoghi di svago per la borghesia e l'aristocrazia.

È in questo contesto che nascono le “bagnarole”, strutture iconiche di questa nuova epoca di svago e benessere.

 

Le Bagnarole: Un Tuffo nel Passato della Belle Époque

Le bagnarole, per la maggior parte cabine mobili in legno montate su ruote, erano utilizzate per permettere ai bagnanti di cambiarsi e immergersi nelle acque del mare lontano da occhi indiscreti. Queste strutture, trainate da cavalli fino alla battigia o addirittura fino a metà dell'acqua, offrivano un riparo discreto, in linea con le norme di decoro dell'epoca, che richiedevano che le donne potessero entrare e uscire dall'acqua senza essere osservate.

Nate nel Regno Unito alla fine del Settecento, le bagnarole si sono rapidamente diffuse in tutta Europa durante la Belle Époque, trovando ampio spazio anche in Italia, soprattutto nelle località balneari frequentate dalla nobiltà e dalla ricca borghesia in cerca di relax e mondanità.

 

 

 

Bagnarole nel Salento: l'eleganza di Santa Maria di Leuca

La punta di diamante della villeggiatura estiva Salentina dell’epoca è Santa Maria di Leuca.

La moda della permanenza estiva nelle marine, che pervade tutte le classi sociali, porta allo sviluppo di bagnarole di diversa tipologia:

-              Bagnarola a conca: era quella del popolo, ovvero una fossa tra scogli in riva al mare che veniva utilizzata da chi non sapendo nuotare andava alla ricerca di un posto sicuro; oltre a questa “buca” naturale, vi erano anche conche artificiali, accenni cioè di escavazioni più ampie.

-              Bagnarola scoperta: una specie di vasca da bagno scavata nella scogliera, generalmente a forma quadrangolare; uasi tutte avevano una scaletta per scendere in acqua, che entrava attraverso due aperture, e raggiungeva un livello molto basso, per cui potevano fare il bagno sia i bambini che gli adulti che non sapevano nuotare. In origine queste bagnarole erano riservate, per cui molto difficilmente ci si poteva introdurre. Ognuna aveva il nome del proprietario, che apparteneva a un livello sociale medio.

-              Bagnarola di legno: scavata in prossimità della riva come la bagnarola scoperta, forma quadrangolare, aperture di accesso al mare e scalette di pietra, costituiva la base per la copertura in legno. In pratica la parte inferiore, cioè, la base, aveva l’acqua, poi il piano di legno con scalette per scendere in acqua, quindi le parti laterali tutte in legno che chiudevano la struttura. La funzione della bagnarola in legno era quella di creare un ambiente privato, riservato e riparato dal sole. Queste bagnarole oggi non esistono più, sono state attive fino agli anni sessanta. Anche queste bagnarole avevano il nome del proprietario della villa di appartenenza. Generalmente erano riservate per le famiglie dell’alta borghesia. La struttura veniva montata agli inizi della stagione estiva e tolta con le prime mareggiate ai primi di ottobre.

- Bagnarole di pietra: la struttura fondamentale è la stessa, ovvero una parte della scogliera scavata in forma quadrangolare con due aperture di accesso al mare. Coperta da una costruzione in pietra, si accedeva da una porta laterale, che immetteva su di un pianerottolo da cui si scendeva in acqua attraverso una scaletta in pietra. Compito della struttura era quello di offrire la possibilità di spogliarsi e di avere un ambiente tutto privato. Quindi una cabina che garantiva un bagno al coperto, senza essere visti da nessuno e mantenersi così con il colore della pelle mai baciata dal sole, coì come dettava la moda dell’epoca. Generalmente aveva una forma circolare, esagonale o anche dodecagonale. Collocata appunto in riva al mare, quasi sempre di fronte alla villa di appartenenza. Queste costituivano anche il segno della nobiltà. Questo perché a partire dalla fine dell’800 iniziarono ad essere realizzate a Santa Maria di Leuca un numerosissimo numero di ville in stile liberty e moresco, in linea con i canoni dell’epoca, come rappresentazione del potere crescente dell’alta borghesia e della nobiltà. I proprietari delle ville potevano permettersi il lusso di riservarsi un pezzetto di costa e costruire la loro nobiliare cabina secondo lo stile e il colore della propria villa. Era un segno di “proprietà” e di “identificazione”.

Oggi sono rimaste solo tre bagnarole in pietra, due grandi, quella di villa Meridiana e quella di Villa Fuortes e una piccola, costruita sulla scogliera non scavata, nelle vicinanze del pontile (ex molo degli Inglesi).

 

Altri esempi di bagnarole sul territorio salentino sono presenti a Santa Caterina (marina di Nardò) e a Marina Serra (marina di Tricase).

“La stanza per i bagni” a Santa Caterina di Nardò è accessibile da due aperture laterali alla camera, una delle quali doveva essere l'ingresso principale perché si vedono ancora i battenti della porta che chiudeva l'entrata; l'altra è invece molto dissestata e difficoltosa da raggiungere. Ma l'entrata più suggestiva è quella costituita da un foro semi sommerso che permette l'accesso dal mare. Si trattiene il respiro, si fanno due bracciate e si viene trasportati da una spiaggetta affollata in un luogo sospeso fuori dal tempo.

A Marina Serra troviamo una bagnarola a conca, ovvero “la Grotta dell’amore o degli innamorati”, e la “Grotta Spinchialuru”, dove in prossimità dell’apertura è stata creata una cavità per poter fare il bagno indisturbati.

 

 

 

 

Le Bagnarole nel Resto d'Europa: Un Fenomeno Internazionale

Oltre all’Italia, le bagnarole diventano un simbolo dell'epoca anche in altre località europee. Nel Regno Unito, ad esempio, le bagnarole sono onnipresenti lungo le coste di Scarborough, Brighton e Whitby. In Francia, si trovano a Deauville e Trouville, sulla costa della Normandia, dove erano utilizzate dagli aristocratici francesi e dalla borghesia parigina. Anche nelle località balneari del Belgio come Ostenda, lungo la costa del Mar Baltico in Germania, e nelle eleganti spiagge di Scheveningen nei Paesi Bassi, le bagnarole divennero parte integrante del paesaggio.

Ogni paese le adattava al proprio stile e alle proprie esigenze, ma tutte condividevano la stessa finalità: permettere un bagno al mare in tutta discrezione, rispettando le rigide norme morali dell'epoca.

 

 

Le Bagnarole Oggi: Una Riscoperta Storica e Culturale

Con il passare del tempo, le bagnarole hanno perso la loro funzione originaria e sono state lentamente abbandonate o distrutte. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un rinnovato interesse per queste strutture iconiche, che rappresentano una finestra sul passato e sull'eleganza della Belle Époque.

In alcuni luoghi d'Europa, come la costa britannica o le spiagge di Deauville, alcune bagnarole originali sono state restaurate e conservate come attrazioni turistiche e testimonianze storiche. In Italia, in particolare, il recupero delle bagnarole è stato più sporadico, ma non mancano esempi di ricostruzioni fedeli in località come Santa Margherita Ligure o nei musei legati alla cultura del mare.

A Santa Maria di Leuca, nonostante molte bagnarole originali siano andate perdute, l'interesse per questo patrimonio storico rimane vivo. Alcuni progetti di recupero e restauro sono stati avviati per preservare la memoria di queste affascinanti cabine. Nel 2015 la bagnarola di Villa La Meridiana è stata fortemente danneggiata da una violenta mareggiata, che ha creato un varco su una delle pareti, che è stato prontamente riparato. La riscoperta delle bagnarole non è solo un modo per valorizzare un elemento architettonico, ma anche per rivivere e raccontare una storia fatta di eleganza, tradizioni e amore per il mare.

 

Le bagnarole rappresentano molto più di semplici strutture mobili: sono testimoni di un'epoca in cui il tempo libero, il benessere e l'eleganza erano valori fondamentali. La loro riscoperta e valorizzazione offrono un affascinante viaggio indietro nel tempo, permettendo di rivivere l'atmosfera della Belle Époque e di apprezzare la storia delle località balneari d'Europa, incluse quelle incantevoli del Salento.

Mentre l'interesse per le bagnarole continua a crescere, diventa sempre più evidente che il loro fascino non è solo legato al passato, ma anche al desiderio di recuperare uno stile di vita raffinato e legato al piacere delle piccole cose. Chissà, forse un giorno potremo vederle tornare sulle nostre spiagge come simbolo di un tempo che ancora affascina e ispira.


Guida ai finanziamenti per acquistare e ristrutturare la tua casa in Salento

Se stai pensando di comprare una casa in Salento e hai bisogno di un finanziamento, ci sono alcuni passi fondamentali che ti aiuteranno a navigare con serenità durante tutto il processo, permettendoti di realizzare i tuoi obiettivi.

Per prima cosa, è importante valutare attentamente il proprio budget e i costi totali dell'acquisto. Questo significa stabilire quanto si è disposti a spendere per la casa stessa, ma anche considerare tutte le spese aggiuntive che spesso si accompagnano a un acquisto immobiliare: dal notaio alle tasse, dalle commissioni dell'agenzia immobiliare fino ad eventuali lavori di ristrutturazione. Avere un quadro completo di questi costi permetterà di evitare sorprese e di pianificare in modo realistico le proprie finanze.

Successivamente, ci si dovrà informare sui diversi tipi finanziamento disponibili, per scegliere quello più adatto alle proprie esigenze.

 

Il Mutuo

Nel momento in cui non si avesse a disposizione gran parte della somma necessaria per l’acquisto dell’immobile, c’è la possibilità di richiedere un mutuo ad un istituto di credito.  Si tratta di un contratto di finanziamento, grazie al quale il beneficiario (chi ha richiesto il mutuo) ottiene la cifra che gli permetterà di acquistare l'immobile che desidera. Il mutuatario si impegnerà a restituire all’istituto di credito la cifra ottenuta, maggiorata degli eventuali interessi, attraverso il versamento di un certo numero di rate, il cui ammontare e durata sono definiti dal piano di ammortamento accettato al momento della stipula del contratto.

In tutti i contratti di mutuo ricorrono alcuni elementi essenziali: il tasso di interesse prescelto, la durata, il piano di ammortamento ed eventuali garanzie aggiuntive oltre all'ipoteca.

 

Quanti soldi avere in banca per chiedere un mutuo? Per scegliere il finanziamento è necessario come prima cosa conoscere il costo della casa e, quindi, l'importo necessario ottenere dalla banca per poter concludere l'acquisto. Ma bisogna sempre tenere conto che l'importo massimo del finanziamento che si potrà ottenere arriva fino all'80% dell'immobile, il rimanente 20% bisogna averlo già a disposizione. Alcuni istituti concedono anche mutui fino al 100% del valore dell'immobile, ma a condizioni più onerose. Inoltre, richiedono al cliente garanzie aggiuntive oltre all'ipoteca.

La regola generale delle banche italiane è che la rata del mutuo non deve essere superiore al 30% del reddito disponibile di chi lo chiede. Se il mutuo è cointestato, si tiene conto della somma dei redditi dei due richiedenti. Ad esempio, con una busta paga di € 1.200 mensili, tenendo conto della regola del 30%, si può arrivare a una rata mensile di circa 400 euro.

 

Esistono diversi tipi di mutuo a seconda del tasso di interesse applicato. In particolare, nel “mutuo a tasso fisso” per tutta la durata del prestito il tasso di interesse non cambia e le rate rimangono sempre dello stesso importo. Nel “mutuo a tasso variabile” la rata varia seguendo l'andamento del tasso di interesse, che a sua volta è legato all'andamento di un parametro di mercato. Ogni mese, quindi, l'importo da pagare può subire oscillazioni. Esiste poi il “mutuo misto”, che dà la possibilità a chi lo contrae di passare dal tasso fisso al tasso variabile e viceversa. Esiste anche il “mutuo con cap”, chiamato anche mutuo con tetto: in questo caso viene fissato un tetto massimo oltre il quale la rata non può salire. In questo modo, fin dalla stipula del piano di ammortamento, il mutuatario avrà la garanzia che nel tempo la rata non possa crescere fino a raggiungere cifre troppo alte per le sue tasche. L'oscillazione del tasso di interesse, che nel tempo può crescere o diminuire, potrebbe però causare a lungo andare l'allungamento o la riduzione del piano di ammortamento del mutuo. Infine, il “mutuo con tasso d'ingresso”: in questo caso, banca e cliente stabiliscono che per un certo periodo iniziale venga applicato un tasso ridotto. Scaduto questo periodo, verrà applicato il tasso fisso o variabile corrente.

 

Il piano di ammortamento è la modalità con la quale il finanziamento immobiliare ipotecario sarà rimborsato alla banca. Si può scegliere tra un piano di ammortamento “alla francese”, che è il più diffuso e prevede che le quote di interesse decrescano nel tempo mentre crescono le quote capitale. Nelle prime rate del mutuo, dunque, le quote di interesse saranno più significative e quelle capitale più contenute. Per tutta la durata del mutuo la rata rimane costante. Esiste anche il piano di ammortamento “a rate crescenti”, dove le rate aumentano di importo ogni mese. Il piano di ammortamento “libero”, dove le rate sono composte solo della quota di interessi e il capitale può essere rimborsato entro scadenze predeterminate. Man mano che avviene il rimborso, le quote di interessi dovuti vengono ricalcolate. Infine c'è il piano di ammortamento “a rata fissa e durata variabile”, dove la rata rimane costante ma le variazioni del tasso di interesse determinano l'allungamento o l'accorciamento del piano di rimborso.

Il piano di ammortamento, di conseguenza, andrà a determinare anche la durata delle rate de mutuo,

da 5 anni fino a 30, e alcune banche arrivano anche a 40 oppure 50 anni.

 

Quando la banca concede un mutuo, richiede un'ipoteca sulla casa come garanzia. In pratica, l’ipoteca permette alla banca di avere due diritti sull'immobile: il diritto di prendere possesso della casa se non si riuscirà a pagare il mutuo e il diritto di ottenere il denaro dalla vendita della casa prima di altri creditori. In questo modo, la banca si protegge nel caso in cui non si riesca a pagare le rate del mutuo o si accumulino ritardi nei pagamenti. L'ipoteca viene formalizzata dal notaio e registrata nei Registri Immobiliari. Anche se c'è un'ipoteca sulla casa, si rimane comunque proprietari e si può continuare a utilizzarla come si desidera.

 

Esistono diverse tipologie di mutui, in base al tipo di operazioni immobiliari che deve affrontare la clientela. A fianco del classico mutuo per acquisto, troviamo anche il mutuo per acquisto e ristrutturazione che in un'unica soluzione fornisce la liquidità sia per comprare casa sia per effettuare i lavori necessari. Questo mutuo è sostanzialmente diviso in due parti: una quota destinata all'acquisto della prima casa, l'altra destinata al pagamento dei lavori. La prima parte viene calcolata sulla base del valore dell'immobile, mentre il calcolo della seconda parte si basa sul preventivo dei lavori. L'erogazione del denaro avviene in varie fasi: al momento dell'acquisto e in base allo stato di avanzamento lavori.

Da non dimenticare il mutuo completamento costruzione, detto anche mutuo edile, erogato dalle banche fino all’80% del costo necessario per la costruzione, allo scopo di fornire liquidità per il completamento dei lavori. La durata è variabile, mediamente di 30 anni, e le condizioni diverse rispetto a quelle di un classico mutuo ipotecario. Non prevede l’erogazione completa del finanziamento in una sola tornata, bensì progressivamente a seconda dello stato di avanzamento dei lavori, e la documentazione e le garanzie da fornire sono maggiori rispetto ad altri tipi di mutui.

 

 

Il Prestito

L’altra forma di finanziamento disponibile è quella del prestito. Può essere finalizzato a pagare le spese correnti di casa oppure una ristrutturazione, ma raramente all’acquisto vero e proprio dell’immobile;

Non permette di usufruire dalle agevolazioni previste dalla legge finanziaria per chi compra una prima casa,

e ha una durata più breve rispetto al mutuo (mediamente si attesta intorno ai 48/60 mesi).

Prevede un iter più breve per la richiesta e l’approvazione, e spesso si riesce ad ottenerlo in appena 15 giorni. Riguarda somme più piccole di quelle che vengono trattate nel caso dei mutui, e prevede che ci siano delle garanzie reali, come l’ipoteca sull’immobile, a copertura del finanziamento.

Viene quasi sempre concesso sotto forma di prestito a rata e interesse fisso.

 

 

Muto o Prestito?

A seconda delle proprie necessità, dunque, bisognerà valutare piuttosto se queste possano essere soddisfatte con un mutuo oppure con un prestito.

 

Il caso  della ristrutturazione di casa

È vero che quasi sempre ci ritroviamo di fronte ad una scelta obbligata tra mutuo e prestito. In alcuni casi, tuttavia, è possibile che si possa scegliere liberamente tra le due opzioni. È il caso delle ristrutturazioni con un importo compreso tra 30.000 e 70.000 euro.

Perché questa sovrapposizione? Perché il massimo che viene concesso con i prestiti personali, solitamente, è di 70.000 euro. Allo stesso tempo, il minimo che viene concesso per l’apertura di un mutuo è 30.000 euro.

Come confrontare queste due opzioni? Abbiamo un solo modo valido per farlo: concentrarci sui costi dell’una e dell’altra soluzione. Un prestito personale per una somma tra i 30.000 ed i 70.000 euro, di solito, prevede un TAEG intorno al 5,5%.

Un mutuo, invece, offre tassi intorno al 2%. Certo, bisognerebbe distinguere tra tasso fisso e variabile e in base al singolo caso del richiedente. In generale, però, si dimostrano una soluzione decisamente meno costosa. Questo è vero soprattutto con i tassi IRS ed Euribor molto bassi che oggi troviamo sul mercato.

Non solo, ma dobbiamo anche considerare che nel caso di ristrutturazione della prima casa potremo approfittare di tutte le agevolazioni previste dalla finanziaria attuale.

Il vantaggio dei prestiti personali, comunque, c’è. Anche se più onerosi e meno convenienti a livello fiscale, infatti, di solito vengono concessi in tempi più rapidi.

Ad ognuno, dunque, la soluzione che preferisce in base alle sue priorità ed ai preventivi ricevuti da banche e finanziarie.

 

In questo articolo abbiamo visto come grazie ai finanziamenti, si pussa finalmente realizzare il sogno di acquistare e ristrutturare una casa in Salento, anche se non si hanno subito a disposizione tutti i fondi necessari. Con un mutuo o un prestito, si ha la possibilità di trasformare in realtà il proprio desiderio di avere una casa in questa bellissima terra, adattandola alle proprie esigenze e al proprio stile.


Le Fontane del Salento: scoprire la storia attraverso l'acqua

Le fontane hanno una storia millenaria, che affonda le radici nelle prime civiltà umane. Originariamente, erano semplici strutture destinate a fornire acqua potabile alle comunità, ma nel corso dei secoli si sono evolute in elementi architettonici e artistici di grande rilevanza.

Le prime fontane documentate risalgono alle civiltà mesopotamiche e dell'antico Egitto. Queste culture svilupparono tecniche per incanalare l'acqua dai fiumi e dalle sorgenti naturali verso le città. In Egitto, i giardini reali erano spesso adornati con fontane semplici, alimentate da canali che portavano l'acqua del Nilo. Nell'antica Mesopotamia, le fontane erano parte integrante dei giardini e delle corti dei palazzi.

Nell'antica Grecia e a Roma, le fontane erano comuni negli spazi pubblici e privati. Le fontane romane, in particolare, erano alimentate da complessi sistemi di acquedotti che portavano l'acqua dalle sorgenti montane alle città. Le fontane di Roma erano spesso monumentali, come quella nel Foro Romano, e servivano sia per fornire acqua potabile sia come elementi decorativi.

Durante il Medioevo, le fontane continuarono a essere una caratteristica comune delle città europee, spesso situate nei cortili dei monasteri e nelle piazze centrali delle città. In questo periodo, molte fontane avevano una funzione principalmente pratica, come la distribuzione dell'acqua potabile o l'irrigazione dei campi. Tuttavia, in alcune città, le fontane iniziarono a diventare anche simboli di potere e prestigio, con decorazioni elaborate e sculture religiose.

Nel Rinascimento, le fontane tornarono a essere elementi di grande valore artistico. L'Italia, in particolare, vide la costruzione di numerose fontane che combinavano ingegneria idraulica avanzata e arte. Le fontane rinascimentali, come quelle progettate da Gian Lorenzo Bernini a Roma, erano spesso adornate con sculture complesse che celebravano divinità mitologiche, figure storiche e simboli di potere.

Durante il periodo barocco, le fontane divennero ancor più teatrali e scenografiche. Le grandi fontane barocche erano spesso caratterizzate da getti d'acqua alti e complessi giochi d'acqua. Esempi emblematici di questo periodo includono la Fontana del Tritone a Roma e le fontane di Versailles in Francia.

Con l'avvento dell'era industriale, le fontane continuarono a evolversi, diventando simboli di progresso tecnologico. Le fontane moderne utilizzano spesso sistemi di pompaggio avanzati e illuminazione per creare spettacoli d'acqua che attraggono i visitatori. Oggi, le fontane sono presenti in quasi tutte le città del mondo, dalle piccole piazze ai grandi parchi urbani.

In molte culture, le fontane continuano a essere simboli di abbondanza, purezza e bellezza, e rimangono elementi centrali in molte piazze pubbliche e giardini privati.

 

Le fontane nel Salento

Le fontane nel Salento, pur non essendo numerose come in altre regioni italiane, rappresentano elementi significativi del patrimonio culturale e artistico locale, spesso legati a funzioni pratiche e simboliche.

A tal riguardo Lecce è oggetto di un detto di origine borbonica, ed è chiamata “La città senza fontane”, che riflette l'ironia e il paradosso legato a un luogo famoso per la sua architettura barocca e le sue numerose fontane decorative, ma con scarse risorse idriche. Nonostante la presenza di numerose fontane, in passato queste non erano sempre funzionanti o non avevano una fonte d'acqua abbondante che le alimentasse.

A tal proposito è necessario menzionare il leggendario fiume Idume, un corso d'acqua che scorre prevalentemente sotto terra, attraversando la citta di Lecce, ed emergendo in superficie solo in pochi punti specifici. La sua sorgente si trova nei pressi della città di Surbo, a nord di Lecce, e il fiume continua il suo percorso fino a sfociare nel mare Adriatico. Storicamente, l'Idume forniva acqua potabile e veniva utilizzato per irrigare i campi. Tuttavia, a causa della sua natura sotterranea e del carattere carsico del territorio, il fiume è sempre stato difficile da gestire e controllare. Con l'espansione urbana di Lecce e i cambiamenti ambientali, gran parte del suo corso è stato coperto, e oggi l'Idume è principalmente nascosto sotto la città. Inoltre, la presenza del fiume sotterraneo potrebbe essere una delle ragioni principali dietro il detto "Lecce, fontane senza acqua". Le fontane della città, sebbene artisticamente ricche, avevano spesso problemi di approvvigionamento idrico a causa della difficoltà di accedere alle risorse d'acqua del fiume Idume, nascosto sotto la superficie.

Le fonti storiche testimoniano che la più antica fontana di Lecce risale al 1498, seguita poi da un’altra fontana alla fine del ‘500, collocata nell’attuale Piazza Sant’Oronzo, tra la chiesa di Santa Maria delle Grazie e l’anfiteatro romano. Il manufatto era costituito da una vasca in pietra emisferica, sorretta da ninfe, e al centro si innalzava lo stemma civico della città (una lupa incedente e un albero di leccio coronato da cinque torri). Dal centro del leccio zampillava l’acqua che ricadeva nella vasca sottostante, e da questa in due bacini ottagonali concentrici situati alla base, che si elevava di poco sul livello della piazza. L’approvvigionamento dell’acqua avveniva tramite un grande pozzo e una macchina idraulica con tubazione in pietra, funzionanti grazie alla forza animale, che nel 1678 andarono ad alimentare anche la nuova fontana del noto architetto Giuseppe Zimbalo, che andò a sostituire la precedente. Il nuovo monumento fu dedicato al re dell’epoca, Carlo II, rappresentato da una statua equestre, e rimase attiva sino al 1841, anno in cui venne demolita. La fontana preesistente invece non venne distrutta, ma venne collocata nel parco dei Conti Orsini del Balzo, e rimase lì sino al 1756.

Ma l’acqua c’era o non c’era? C’era e non c’era. Ogni volta che si voleva far zampillare l’acqua dalla fontana era necessario azionare la macchina idraulica del pozzo da un cavallo o da un asino per riempire il serbatoio, e quindi la fontana rimaneva vuota per gran parte dell’anno, se non in occasione di poche solenni festività.

Oggi la fontana più rappresentativa di Lecce è la Fontana dell’Armonia (detta anche fontana dei Due Amanti), eretta nel 1927, in occasione dell’arrivo dell’acquedotto in città, di fronte al castello di Carlo V. Su questa opera, costruita in pietra di Trani, si innalzano due statue in bronzo, riposte su canne d’organo di lunghezza varia: si tratta di un uomo e di una donna, privi di vestiti, che sorreggono una conchiglia da cui entrambi bevono. La volontà dello scultore era di celebrare un momento molto importante per la città di Lecce, attraverso l’allegoria dell’amore e della condivisione.

 

Spostandoci dal capoluogo, troviamo in provincia altre fontane particolari, che sono diventate elementi di riconoscimento e punti di riferimento per le comunità in cui sono situate.

La prima la troviamo a Nardò, ed è la Fontana del Toro, realizzata nel 1930. Riporta il simbolo della città: il toro che fa zampillare l’acqua. La leggenda racconta che la città sia stata fondata nel punto in cui un toro abbia fatto sgorgare l’acqua. Il toro è anche un simbolo legato agli Aragonesi spagnoli, per un periodo dominatori del sud Italia, che giunsero a Nardò in periodo rinascimentale. Si tratta di un periodo in cui l’attenzione storico-letteraria è rivolta all’età classica: viene riproposto il tema del mito, nel quale il toro ha rilevanza e frequenza. Accanto alla fontana è presente un medaglione che riprende lo stemma della città e riporta l’espressione “Tauro non Bovi”. La presenza del toro e non del bue rappresenta la forza della dominazione aragonese o forse della stessa popolazione neritina.

 

A Gallipoli, tra il centro storico e la zona nuova della città, troneggia la Fontana Greca. Inizialmente, oltre alla tradizione locale, anche alcuni critici pensavano che la fontana risalisse al III secolo a.C. Dopo altri studi, tuttavia, risultò più corretto collocare l’opera architettonica in età rinascimentale. Dalla zona delle fontanelle passò, dal 1548 fino al 1560, presso la scomparsa Chiesa di San Nicola. Poi, dal 1560, la troviamo nel posto in cui è tuttora, accanto al Ponte di Gallipoli.

Ma il dubbio sulle sue origini persiste: il gusto che creò la fontana è quello dell’arte dell’Antica Grecia, quello di un popolo che usava il mito come modo per esprimersi. Secondo questa teoria, con le invasioni dei Goti, le statue sarebbero state rimosse per poi, nel 1560, essere reinserite nella struttura. Qualunque sia la vera datazione, la Fontana Greca suscita ancora oggi grande interesse e curiosità. La fontana è composta da due facciate, alte circa 5 metri: una rivolta a Nord-Ovest e l’altra a Sud-Est.

La facciata Nord-Ovest ha funzione di sostegno e risale al 1765. Su questa si staglia lo stemma di Gallipoli stessa, caratterizzato dall’immagine di un gallo con una corona e un’epigrafe latina che recita fideliter excubat, ossia vigila fedelmente. Ben in evidenza sono anche le insegne del sovrano Carlo III Borbone.

In basso c’è l’abbeveratoio a cui si dissetavano gli animali, da cui, negli anni Cinquanta, veniva prelevata l’acqua destinata alle famiglie che non ne avevano in casa.

La facciata Sud-Est è suddivisa in tre blocchi, scanditi da quattro cariatidi che sorreggono l’architrave con un ricco decoro dell’altezza di circa 5 metri. Nei tre comparti ricavati tra le quattro cariatidi si stagliano dei bassorilievi. Essi raffigurano le metamorfosi di tre figure mitologiche. Si tratta di Dirce, Salmace e Biblide, donne trasformate in fonti.

La più spettacolare è la Cascata Monumentale di Santa Maria di Leuca. Considerata unanimemente una delle più belle d'Italia, quest'opera, dall'elevato valore ingegneristico, impreziosisce la cittadina da più di 80 anni. Costituisce il tratto finale di uno dei progetti più ambiziosi e importanti d'Italia, ovvero l'Acquedotto Pugliese, attualmente il più grande d’Europa. Fu realizzata per celebrare la buona riuscita del progetto e venne inaugurata nel 1939. Nel 1927, fu finalmente ultimato il Grande Sifone, che porta l'acqua prima a Lecce e poi nei principali comuni salentini, fino a raggiungere Santa Maria di Leuca. Tra il 1931 e il 1941, la realizzazione delle diramazioni periferiche completò la grandiosa opera, attualmente incastonata in un paesaggio incantevole, tra rocce a picco sul mare e una pineta. Un’opera imponente che vanta una lunghezza di oltre 250 metri e un dislivello di 120 metri circa, con una portata di 1.000 litri al secondo che termina direttamente nel mare. Alla sua destra e alla sua sinistra è affiancata da due lunghissime scalinate, che dal piazzale del sovrastante Santuario de Finibus Terrae, conducono alla fine della cascata, dov’è stata collocata una colonna romana, e così al porto. La cascata non permette a curiosi, turisti e spettatori di venire ammirata di continuo, ma al contrario è azionata di rado, specialmente durante il periodo estivo, sia per permettere il deflusso e lo scarico delle acque, sia per creare uno spettacolo suggestivo ed affascinante. La cascata non permette a curiosi, turisti e spettatori di venire ammirata di continuo, ma al contrario è azionata di rado, specialmente durante il periodo estivo, sia per permettere il deflusso e lo scarico delle acque, sia per creare uno spettacolo suggestivo ed affascinante.

Infine, ma non meno importanti, sono le fontanine dell’acquedotto pugliese. Ogni comune salentino ne possiede almeno una. Si tratta di piccole fontane pubbliche, tutte identiche (altezza 128 cm, base circolare 38 cm, forma conica, corredata di cappello e vaschetta di recupero delle acque, totalmente in ghisa, rubinetto a getto intermittente con meccanismo interno in ottone, ancora oggi a produzione artigianale). Parliamo del simbolo dell'Acquedotto Pugliese, la storica fontanina che tante piazze della Puglia e del meridione conoscono e che, a partire dal 1914, ha portato la prima acqua salubre pubblica in Puglia e che, ancora oggi, rappresenta l'icona indiscussa di questa epocale conquista sociale. Nel corso degli anni si moltiplicano le storie e i poemi in rima sulla fontanina, una letteratura popolare, il più delle volte in dialetto: "All'acqua, all'acqua, alla fendana nova, ci non tene la zita se la trova" (All’acqua, all’acqua, alla fontana nuova, chi non ha la fidanzata se la trova”) recita ad esempio una filastrocca anonima risalente agli anni '20, che testimonia l'affetto incondizionato che le popolazioni pugliesi riservano a questo semplice strumento di vita.

 

Le fontane del Salento, pur non essendo numerose come in altre regioni italiane, sono comunque parte integrante del paesaggio urbano e rurale. Oltre a fornire acqua, queste fontane servivano e servono come luoghi di incontro, di festa e di socializzazione, rappresentando simboli di vita e di comunità. Per i turisti, le fontane offrono un'opportunità per immergersi nella storia locale e apprezzare la bellezza architettonica della regione.

Il Salento, con la sua combinazione di elementi storici e moderni, continua a valorizzare le fontane come parte del suo patrimonio culturale, riflettendo la ricca tradizione artistica e la vitalità della sua gente.