L’Anfiteatro Romano di Lecce: un Tesoro da Risvegliare

Lecce, soprannominata la "Firenze del Sud", è una città che incanta con il suo barocco splendente e il fascino delle sue antiche pietre. Tuttavia, dietro la sua immagine di capitale del barocco, si cela una storia ancora più profonda e antica: quella della romanità. La recente emersione di una porzione interrata dell’anfiteatro romano, avvenuta durante i lavori di pavimentazione in Piazza Sant’Oronzo, ha riacceso i riflettori su questo gioiello nascosto, portando alla luce non solo frammenti di un passato remoto, ma anche interrogativi sul futuro della città. Non si tratta solo di un recupero archeologico: si tratta di riscoprire l’identità di Lecce, che con il sito archeologico di Rudiae e altri tesori romani si pone come un centro culturale di portata globale, un unicum che può essere paragonato soltanto a Roma.

Costruito tra il I e il II secolo d.C., l’anfiteatro romano di Lecce è una delle testimonianze più importanti della romanità di Lupiae, l’antico nome della città. Si ritiene che la sua costruzione sia avvenuta per volere dell’imperatore Augusto come segno di gratitudine verso una città che lo accolse durante le guerre civili. Questa struttura, un tempo capace di ospitare tra i 12.000 e i 14.000 spettatori, era un centro nevralgico della vita pubblica e ospitava spettacoli di caccia, giochi gladiatori e cerimonie pubbliche.

L’anfiteatro, oggi visibile solo in minima parte, è un capolavoro di ingegneria. La sua struttura ellittica, scavata direttamente nel banco di pietra leccese, utilizzava un misto di tecniche costruttive: opera cementizia, opera quadrata e un raffinato sistema di scale per accedere ai vari settori. Il muro esterno, originariamente composto da 68 arcate, è oggi visibile solo per 24 pilastri, ma testimonia la grandezza dell’opera. Nel corso del tempo, l’anfiteatro fu arricchito, probabilmente in età adrianea, con un portico al secondo piano e rilievi scolpiti con scene di caccia.

L’anfiteatro non è un caso isolato: Lecce vanta un’eredità romana unica, con due teatri (incluso quello recentemente scoperto a Rudiae), due anfiteatri e due porti di epoca augustea. Questa concentrazione di testimonianze rende la città un vero e proprio museo a cielo aperto, in grado di raccontare una storia millenaria che merita di essere vissuta e apprezzata appieno.

La recente visita del sindaco Adriana Poli Bortone al ministro della Cultura Alessandro Giuli rappresenta un momento chiave per il futuro dell’anfiteatro. Durante l’incontro, il ministero ha confermato l’assegnazione di fondi per proseguire gli scavi e rendere visibili porzioni ancora sommerse del monumento. È stato inoltre istituito un tavolo tecnico, con la partecipazione di esperti come il professor Francesco D’Andria, per pianificare interventi che non si limitino alla semplice conservazione, ma puntino alla valorizzazione dell’intero sito.

Le idee per il futuro sono ambiziose: si parla di una musealizzazione innovativa, che utilizzi materiali trasparenti o segnali interattivi per evidenziare le tracce archeologiche, integrandole nella pavimentazione moderna. Tecnologie di realtà aumentata potrebbero far rivivere la città romana sovrapponendola alla Lecce contemporanea, offrendo ai visitatori un’esperienza immersiva che colleghi passato e presente in modo unico.

La valorizzazione dell’anfiteatro comporta sfide significative. Riaprire gli scavi e ampliare l’area visibile richiede una riorganizzazione degli spazi urbani, con soluzioni che minimizzino l’impatto sulla vita quotidiana della città. Tra le proposte innovative, spicca quella di un ponte sospeso per collegare Piazza Sant’Oronzo a Via Giuseppe Verdi, dimostrando come storia e modernità possano convivere in armonia.

Scoperto agli inizi del Novecento grazie agli studi di Cosimo De Giorgi, l’anfiteatro è riconosciuto come monumento nazionale dal 1906. Eppure, la sua piena riscoperta potrebbe trasformare Lecce in un epicentro culturale e archeologico, aumentando il suo prestigio a livello internazionale.

Un’efficace valorizzazione dell’anfiteatro e degli altri siti romani potrebbe rappresentare una svolta per il turismo culturale di Lecce. Oggi conosciuta per il suo barocco, la città potrebbe espandere la propria offerta puntando sulle sue radici messapiche e romane. Nuovi flussi turistici, attratti da esperienze innovative e diversificate, potrebbero contribuire a un’economia più sostenibile, incentrata su un turismo consapevole.

Progetti come “Toccare per Credere”, che rendono il patrimonio accessibile anche ai non vedenti attraverso miniature 3D, dimostrano come la cultura possa essere resa inclusiva, arricchendo il valore del patrimonio storico di Lecce.

La riscoperta dell’anfiteatro romano di Lecce non è solo un’opportunità per riportare alla luce un pezzo di storia, ma una vera e propria chiamata all’azione per l’intera comunità. Lecce ha la possibilità di ridefinire la propria identità, abbracciando le sue radici millenarie e andando oltre la sua immagine di capitale del barocco. Come ha dichiarato il sindaco Poli Bortone: *“È la storia, bellezza. Coraggio: non si può fare altro.”*
Un futuro ricco di storia e innovazione attende Lecce, pronta a risplendere ancora una volta al centro della scena mondiale.


Tra argilla e sogni: la ceramica salentina, radici antiche e visioni architettoniche

La ceramica salentina, una delle espressioni più autentiche e antiche dell'artigianato pugliese, rappresenta un patrimonio culturale di inestimabile valore. Questa tradizione artigianale, nata secoli fa, ha attraversato le epoche evolvendosi in forme, stili e utilizzi, mantenendo sempre un legame profondo con il territorio e l'architettura locale.

La stessa parola “ceramica” ha origine greca, da “kéramos” che significa appunto “terra da vasaio”. Per la sua grande versatilità, questo materiale è stato utilizzato nei secoli al fine di produrre oggetti diversi, realizzati dalle abili mani di artigiani esperti e pronti per essere decorati con le tecniche più diverse.

 

Le origini della ceramica salentina risalgono all'epoca preistorica, quando le popolazioni locali iniziarono a modellare l'argilla per creare utensili di uso quotidiano e oggetti rituali.

Tra le tradizionali produzioni di vasellame più celebrate per la loro bellezza, un posto d’onore spetta senz’altro a quella messapica, tipica del Salento tra l’ottavo e il terzo secolo avanti Cristo. I Messapi, antica popolazione di origine illirica, diedero origine a vasi (in particolare olle e trozzelle) dalle decorazioni sempre più complesse, a partire dai motivi geometrici del primo periodo fino agli influssi di matrice greca. Ben presto i vasi messapici cominciarono a essere decorati nella loro interezza, anche con motivi floreali e figurativi, per poi tornare, nel terzo periodo, a decorazioni geometriche e monocromatiche, stavolta però con chiara influenza ellenica. Si affermarono anche nuove forme vascolari come la pisside o il cratere, ma la tipica trozzella, con corpo ovoidale e le anse nastriformi dotate delle quattro caratteristiche rotelline, rimase l’espressione più vera e pura dell’arte messapica, insieme a tipologie come la pignata, usata per la cottura dei tipici piatti salentini, e le capase, per la conservazione dell’acqua.

Durante il periodo greco-romano, la produzione ceramica nella regione del Salento si arricchì di tecniche e decorazioni più sofisticate, influenzate dai contatti con le civiltà mediterranee. Questi scambi culturali contribuirono a sviluppare una tradizione ceramica caratterizzata da una grande varietà di forme e motivi decorativi.

Con l'avvento del Medioevo e poi del Rinascimento, la ceramica salentina continuò a prosperare, affermandosi come un'arte raffinata. Le botteghe artigiane si moltiplicarono nelle principali città del Salento, come Lecce, Grottaglie e Cutrofiano, dove gli artigiani sperimentavano nuovi smalti e tecniche decorative. Durante il Barocco, la ceramica salentina raggiunse l'apice della sua espressione artistica, grazie alla ricchezza dei motivi floreali e delle figure mitologiche.

 

Nel corso dei secoli, la ceramica salentina ha subito una continua evoluzione, adattandosi alle nuove esigenze estetiche e funzionali. La produzione si è estesa dalla creazione di oggetti di uso quotidiano, come piatti, vasi e tegami, alla realizzazione di elementi decorativi per l'architettura, come maioliche e rosoni. La contaminazione con altre tradizioni ceramiche italiane ed europee ha arricchito il repertorio stilistico salentino, portando alla creazione di pezzi unici che combinano tradizione e innovazione.

Oggi, la ceramica salentina mantiene vive le tecniche artigianali tradizionali, ma allo stesso tempo abbraccia le nuove tecnologie e tendenze del design contemporaneo. Le botteghe artigiane, molte delle quali a conduzione familiare, continuano a produrre ceramiche secondo antichi metodi, ma con un occhio attento alle esigenze del mercato moderno.

 

Nell'uso attuale, la ceramica salentina trova applicazione in diversi contesti, sia come elemento funzionale che decorativo. Gli oggetti in ceramica sono apprezzati per la loro bellezza e per la capacità di raccontare la storia e la cultura del Salento. Oltre ai tradizionali oggetti da cucina, la ceramica salentina viene utilizzata per la realizzazione di complementi d'arredo, come lampade, tavoli e piastrelle, che aggiungono un tocco di eleganza e autenticità agli ambienti.

L'artigianato ceramico è anche un importante settore economico per la regione, attrattivo per il turismo culturale. Le fiere e i mercati dedicati alla ceramica salentina attirano visitatori da tutto il mondo, desiderosi di scoprire e acquistare pezzi unici e fatti a mano.

 

Tra gli elementi più caratteristici troviamo:

Il Pumo

Il nome e le motivazioni della produzione del pumo, divenuto uno dei più distintivi della tradizione artigianale, sono da ricercarsi nella storia della Roma antica quando si celebrava il culto di Pomona, la dea dei frutti. Pumo deriva dal latino pomum che significa "frutto".

La sua forma richiama il bocciolo racchiuso tra quattro foglie di acanto, quindi la vita che nasce, rinnovandosi. E’ simbolo di prosperità e di fecondità ma anche di castità, immortalità e resurrezione. A ciò si aggiunge anche la sua funzione apotropaica, una sorta di amuleto capace di allontanare il male, la cattiva sorte. Per questi motivi, questo manufatto si diffuse in un primo momento tra le famiglie della nobiltà pugliese, che lo adoperarono come elemento d'arredo delle facciate dei palazzotti signorili e sulle ringhiere in ferro battuto, e successivamente al resto della popolazione anche contadina.

Ben si distinguevano, però, i pumi degli uni rispetto agli altri. Infatti i signori del paese erano soliti personalizzarli con simboli araldici e con un numero variabile di foglie intorno al bocciolo a testimonianza della notorietà, dell'autorevolezza e del patrimonio della famiglia di appartenenza.

La funzione del pumo non è quella di scacciare la sfortuna, la cattiva sorte, il male; esso viene prima della cattiva sorte e la tiene lontana, è la barriera impenetrabile al male. Il pumo è dunque un oggetto benaugurante, che, come vuole, la tradizione, non si acquista, ma va regalato o ricevuto in dono.

 

Capase o capasoni

I contadini pugliesi e i contadini del Salento usavano questi bellissimi recipienti in terracotta pugliese per diversi usi. In linea generale, si trattava di conservare liquidi. Poteva trattarsi di olio extravergine di oliva, di acqua, di vino. Il pregio di questi recipienti era quello di riuscire a mantenere inalterate le caratteristiche del liquido contenuto, soprattutto per ciò che concerne la temperatura. Il nome capasa proviene dal latino capax capacis, che significa capace. Fa riferimento, com’è intuitivo, alla capacità spesso importante di questi recipienti, ed alla loro utilità nel contenere liquidi. La capasa è nota anche come capasone, con valore accrescitivo. Nei secoli scorsi le capase più grandi si usavano al posto delle botti durante la vendemmia. Ne bastavano alcune decine di quelle molto grandi (capacità almeno 200 litri) le usavano per conservare il vino. Solitamente la bocca dei capasoni era sigillata con un tappo fatto di calce e cenere. lla base del capasone, ad una ventina di centimetri dal fondo, c’era una bocchetta di scarico alla quale si fissava una sorta di rubinetto: il suo nome era cannedda, ma talvolta poteva anche essere un tappino di sughero, chiamato invece pipulu. In tal modo, era facile procurarsi la giusta dose di vino o olio avvicinando un recipiente alla cannedda.

I capasoni non erano solamente usati per i lavori agricoli, ma anche per trasportare liquidi avanti e indietro attraverso il Mediterraneo. Furono per lungo tempo i protagonisti dei commerci sino al medio e lontano Oriente.

Le capase ed i capasoni oggi sono tornati molto di moda e c’è un ampio mercato che ruota attorno alla ricerca dei vecchi esemplari ed alla loro rivalorizzazione. Capita di vederli agli ingressi di prestigiosi resort turistici, nelle corti di tante ville signorili, presso giardini e aree esterne.

 

Il Gallo

Protagonista indiscusso della decorazione delle ceramiche pugliesi, lo si può ritrovare su moltissimi oggetti di uso quotidiano, la maggior parte dei quali da usare a tavola durante i pasti. La storia ha origini antichissime e straordinarie e vede nel gallo il simbolo della figura di Mercurio, divinità che rappresenta il commercio, il guadagno, l’eloquenza. Il gallo viene quindi identificato come animale sacro, il quale oltre a rappresentare Mercurio può essere ricondotto ad altre importanti simbologie. Esso infatti viene considerato quasi come animale domestico, in grado di poter allontanare dalla propria abitazione tutte le energie negative e le malignità. Ultima, ma non meno importante, caratteristica del famoso galletto pugliese è quella di essere considerato un simbolo di fertilità.

 

Il legame tra la ceramica salentina e l'architettura è particolarmente forte. Sin dall'epoca barocca, le maioliche e i pannelli decorativi in ceramica sono stati utilizzati per abbellire chiese, palazzi e abitazioni nobiliari. La ceramica è diventata un elemento distintivo del Barocco leccese, con i suoi colori vivaci e i motivi ornamentali che arricchiscono le facciate degli edifici.

Anche nell'architettura contemporanea, la ceramica salentina continua a svolgere un ruolo importante. Architetti e designer scelgono spesso materiali ceramici per le loro qualità estetiche e funzionali, come la resistenza e la facilità di manutenzione. Le piastrelle in ceramica vengono impiegate sia negli interni che negli esterni, creando continuità tra la tradizione e le nuove tendenze dell'architettura sostenibile.

 

La ceramica salentina, con le sue radici antiche e la sua continua evoluzione, rappresenta un simbolo della cultura e dell'identità del Salento. Il suo rapporto con l'architettura e l'uso attuale testimoniano la capacità di questa tradizione di rinnovarsi e adattarsi ai tempi, pur conservando la sua autenticità. Il futuro della ceramica salentina sembra luminoso, con nuove generazioni di artigiani pronte a portare avanti questa eredità con passione e creatività.


Guida Illuminante: Esplorando il Fascino dei Fari

I fari si ergono imponenti a guardia dei mari, resistendo anche alle peggiori mareggiate, e hanno da sempre catturato l’immaginario collettivo. È incredibilmente suggestivo osservare dal basso un faro arroccato che si affaccia sul mare. Solletica l’idea di visitarlo, arrampicandosi su centinaia di gradini per ammirare, una volta in cima, un panorama mozzafiato che si perde all’orizzonte, dove mare e cielo si fondono.

 

Icone di Design e Architettura

Oggi molti fari sono in disuso e sono diventati patrimonio artistico e culturale da preservare, opere di architettura e di ingegno, alcuni costituiscono dei veri e propri capolavori, in quanto i fari non sono solo utili strumenti di navigazione, ma sono anche spettacolari esempi di design e architettura. Dalle maestose torri di granito dei fari europei alle eleganti strutture di ferro battuto dei fari americani, ciascun faro porta con sé una storia unica e un fascino senza tempo. Ogni dettaglio, dalle scale a chiocciola che si arrampicano verso la cima agli intricati sistemi di ingranaggi che regolano le lampade, è una testimonianza dell'ingegno umano e dell'abilità artigianale.

 

Tesori Storici

Tuttavia, anticamente, la salvezza dei naufraghi e dei villaggi era affidata a loro e ai loro guardiani. In caso di attacchi dal mare, fungevano anche da torri costiere e i guardiani, come sentinelle negli avamposti, erano i primi a poter dare l’allarme. In origine, i fari erano semplici falò o torce tenute accese per segnalare le zone di sbarco.

Ci sono testimonianze che risalgono molto indietro nel tempo a raccontare il mito dei fari. Virginia Woolf, nel suo romanzo del 1927 "Gita al Faro", li descrive così: «Il Faro era allora una torre argentea, nebulosa, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e dolcemente la sera». Omero, nel XIX libro dell’Iliade (VIII secolo a.C.), paragona lo sfavillio dello scudo del grande Achille a «uno di quei fuochi che dalle alture rendono sicura la via ai naviganti».

I fari diventano un vero mito con gli antichi autori. Ovidio, nelle "Eroidi", una raccolta di 21 lettere d’amore o di dolore immaginate come scritte da famose eroine ai loro mariti o amanti.

Quando, nel 1200, i Fenici arrivarono nel Mediterraneo con la necessità di incrementare il commercio marittimo, nacque il bisogno di protrarre i tempi della navigazione anche durante la notte. Così, si improvvisò la costruzione di impalcature a torre lungo le coste, dove venivano posizionate delle ceste con falò, sorvegliate da uomini incaricati di mantenere il fuoco acceso.

I primi due mirabili fari dell'antichità risalgono al 300 a.C. Uno di essi è il Colosso di Rodi, una gigantesca statua di bronzo alta trentadue metri situata all'ingresso del porto di Mandraki. Rappresentava il dio Helios, protettore di Rodi, che recava nella mano destra un faro. Rimase a guardia dell'isola per sessantasette anni, prima di essere distrutto da un terremoto.

Lighthouse at the waterfront, Alexandria, Egypt

Il secondo faro è il Faro di Alessandria, che rimase funzionante fino al IX secolo, prima di essere anch'esso distrutto da terremoti. Fu costruito per aumentare la sicurezza del traffico marittimo, reso pericoloso dai banchi di sabbia all'ingresso del porto di Alessandria. Il faro sorgeva sull'isola di Pharos (Faro), da cui prende il nome. Era costituito da un alto basamento quadrangolare che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. Sopra il basamento si ergeva una torre ottagonale, seguita da una costruzione cilindrica sovrastata da una statua di Zeus, poi sostituita da quella di Helios. La costruzione del faro permetteva di segnalare la posizione del porto alle navi di giorno, con l'uso di speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole, e di notte, con l'accensione di fuochi. Si stima che la torre fosse alta 134 metri e visibile a 48 km di distanza. Vista la sua utilità, si cominciarono a costruire fari in molti altri luoghi del Mediterraneo.

Successivamente, anche i Romani diffusero in tutte le loro conquiste imperiali la costruzione di torri di pietra con il fuoco in cima. Queste torri furono adottate anche dalle quattro Signorie delle Repubbliche marinare in Italia, situate vicino ai porti. Dopo il crollo dell'Impero Romano, i campanili dei monasteri costruiti in cima alle rocche assunsero questa funzione, soprattutto nel nord Europa. Durante il Rinascimento e l'epoca barocca, nacquero in Francia e in Inghilterra, all'ingresso della Manica, fari meravigliosi simili a castelli, situati in mezzo al mare ma poco funzionali.

Tra la fine del 1700 e il 1800, i fari assunsero la connotazione che conosciamo oggi. Il Faro di New York, donato dalla Francia agli Stati Uniti e conosciuto come la famosa Statua della Libertà, fu il primo faro degli Stati Uniti, gestito dal servizio fari americano, e rimase in funzione fino al 1902. Fu anche il primo faro ad essere elettrificato, alla fine del 1800.

Prima dell'avvento del petrolio e poi dell'elettricità, le sostanze usate per alimentare i fuochi dei fari erano svariate: legna, carbone, candele di spermaceti (la materia grassa che si trova all’interno del cranio dei capodogli e che brucia senza fare fumo), olio di balena e di oliva, a seconda delle latitudini.

Si può dire che, in tutto il mondo, non esistono due fari uguali. Ognuno possiede le sue peculiari caratteristiche. Il loro aspetto esteriore serve a identificarli da lontano durante il giorno, mentre di notte la loro luce invia segnali distintivi: luce – eclissi, eclissi – luce, con una frequenza specifica che permette di riconoscere la struttura nel buio. Nei portolani, i manuali che si portano a bordo e che indicano tutte le informazioni sulle coste e i loro pericoli, ogni faro è descritto con la sua particolare luce.

 

Le sentinelle del Salento

Nella penisola italiana, con una costa di circa 7458 km, ci sono fari bellissimi con storie affascinanti, molti dei quali sono diventati mete turistiche molto ricercate.

La regione che in assoluto vanta le location più ricche di fascino, nonché quelle più ricercate dai turisti è la Puglia, con il Faro di Punta Palascìa a Otranto e quello di San Cataldo a Lecce, considerati i due tra i più belli d’Italia; e quelli di Santa Maria di Leuca e dell’isola di Sant’Andrea a Gallipoli, rinomati per la loro altezza, che fanno tutti parte del Salento.

 

Il faro di Punta Palascìa

Il faro di Punta Palascìa è sicuramente il più rinomato, non solo a livello nazionale ma anche internazionale: è uno dei 5 fari del Mediterraneo tutelati dalla Commissione Europea.

Costruito nel 1867 sui resti di una precedente torre di avvistamento, è alto 32 metri e si erge su un promontorio roccioso, a strapiombo sul mare, nel punto più ad Est d’Italia, meglio noto come Capo d’Otranto.

Talvolta, se si è fortunati, si riescono anche a scorgere in lontananza le montagne dell’Albania, che rendono il panorama, di per sé mozzafiato, ancora più magico.

Il faro, gestito dalla Marina Militare Italiana e adibito a stazione metereologica, restò in funzione fino agli anni ’70 del 1900, dopodiché venne abbandonato. A partire dagli anni 2000 fu sottoposto ad un intervento di recupero; dal 2005 è tornato a rischiarare, con la sua luce, l’oscurità delle notti idruntine.

Al suo interno, una scala a chiocciola composta da 150 scalini conduce fino in cima, dove è custodito il gioiello del faro: la sua lanterna. Quest’ultima proviene direttamente da Parigi e reca la firma di Augustine-Henry Lepaute, allievo prediletto del celebre ingegnere francese Gustave Eiffel.

Costruita nel 1884, emette un segnale luminoso visibile fino a 18 miglia nautiche e sino agli anni ’60 ad alimentarla era il petrolio; adesso invece, una cellula solare.

Ai piedi del faro, una struttura che, per anni, ha fatto da dimora a coloro ai quali era affidata la custodia del luogo, i guardiani.

A poca distanza è stato inoltre allestito il Museo Multimediale del Mare, all’interno del quale è possibile scoprire la flora e la fauna tipiche del territorio.

 

Il Faro di San Cataldo

Ciò che invece rende unico e inestimabile il faro di San Cataldo è il luogo che lo ospita: un’insenatura a dici chilometri dalla città di Lecce, che conserva i resti di un antico molo voluto dall’imperatore Adriano nel II secolo d.C e che, proprio per questo, prendeva il nome di “Porto Adriano”, al tempo in cui la città di Lecce era una colonia romana denominata ' Lupiae '.

Il suo nome attuale secondo la leggenda deriva da un monaco irlandese che tornando da Gerusalemme naufragò in quest'area e si salvò miracolosamente. Il faro è costituito da una torre di forma ottagonale alta poco più di 23 metri a da una struttura in muratura che in origine era destinata ad alloggio dei fanalisti e magazzino, oggi sede dell’ufficio marittimo locale. Il suo fascio luminoso è visibile fino a 5 miglia.

La costruzione di un faro a San Cataldo fu proposta nel 1863 dal Consiglio Provinciale di terra d'Otranto al Ministero dei Lavori Pubblici. Il primo progetto fu presentato nel 1865, e in attesa della costruzione del faro, attivato nel 1897, fu installato un fanale provvisorio sopra un fabbricato comunale.

 

Il Faro di Santa Maria di Leuca

Anche il secondo faro più alto d’Europa è forma ottagonale, e si tratta dell’imponente faro di Santa Maria di Leuca, che con i suoi 47 metri di altezza si innalza sulla sommità di Punta Meliso, a pochi passi dalla Basilica “de Finibus Terrae”.

A progettarlo fu l’ingegnere Achille Rossi nel 1864, lì dove in precedenza sorgeva un’antica torre saracena.

La sua lanterna, in funzione dal 1866, presenta un diametro di 3m, è formata da 16 lenti, di cui 6 libere e 10 oscurate. Queste lenti proiettano fasci di luce bianca visibili fino a 50 km di distanza a cui si alternano fasci di luce rossa che segnalano ai naviganti le pericolose secche del mare di Ugento.

All’interno della struttura ci sono 4 alloggi di cui 3 sono utilizzati dai fanalisti ed uno è adibito a camera di ispezione, sala motori e sala radiofaro.

Per raggiungere la sommità del faro occorre percorrere una scala a chiocciola, composta da 254 scalini. Ma una volta lasciatosi alle spalle anche l’ultimo gradino, la vista che ci si trova davanti fa dimenticare qualsiasi fatica: il blu del mare che abbraccia l’azzurro del cielo, e se si è un po’ fortunati, le coste dell’isola di Corfù e le montagne dell’Albania che spuntano all’orizzonte.

 

Il Faro di Sant’Andrea

Altrettanto incantevole è il paesaggio che fa da sfondo al faro sull’isola di Sant’Andrea, paradiso naturale incontaminato di circa cinquanta ettari distante da Gallipoli solo pochi chilometri.

Alto 46 metri e acceso per la prima volta nel 1866, il faro è rimasto in stato di abbandono per molti anni; recentemente ristrutturato, dal 2005 ha ripreso ad illuminare le acque ioniche con la sua lanterna, in grado di raggiungere una distanza di 20 miglia.

A infrangere il silenzio che regna sull’isola, oggi completamente disabitata, solo il rumore delle onde del mare.

Lo stesso mare che ogni notte assiste al risveglio di questi giganti buoni, pronti a vegliare, ciascuno dalla propria postazione, sulla vita di quanti si trovano, per un motivo o per un altro, a solcare le sue acque.

 

Alto circa 46 metri, il faro dell’Isola di Sant’Andrea è tra i più alti d’Europa, sebbene la scarsa altitudine dell’isola, che non supera i 3 metri sopra il livello del mare, possa trarre in inganno. Nota sin dai tempi del Regno di Napoli con il nome messapico di Achtotus, ovvero terra arida, l’isola venne intitolata a Sant’Andrea nel 1591, per via di una cappella bizantina dedicata al santo.

Ai piedi del faro, un brulicante universo vive indisturbato, senza l’ingombrante presenza umana. I circa cinquanta ettari di terra dell’isola, parte del Parco Naturale Regionale Isola di Sant’Andrea e Litorale di Punta Pizzo, ospitano colonie di conigli selvatici e l’elegante gabbiano corso, che ha scelto l’isola come unico sito di nidificazione in Italia, uno scenario arido e scoglioso, ma rinfrescato dalla presenza di giunchi e dalla salicornia. Lontana circa un miglio dalla terraferma, l’isola ha un ecosistema completamente diverso e unico, che le permette di offrire un riparo a cicogne e aironi durante le migrazioni e popolarsi di gamberi e altri molluschi nei tanti laghetti che s’infiltrano spontaneamente tra le rocce.

Una meravigliosa oasi naturale, riconosciuta quale habitat naturale di importanza comunitaria e individuata come area naturale protetta da una legge regionale della Puglia del 1997, qualificata di particolare interesse storico e artistico dal Ministero per i beni e le attività culturali.

Abbandonato ai flutti e alle mareggiate fino al 2005, il faro è stato ristrutturato ma oggi nessun guardiano lo abita. La lanterna di Gallipoli è automatica e l’isola stessa non è accessibile né disponibile per ormeggi e sbarchi non preventivamente concordati con la Capitaneria di Porto.

 

Conclusioni

In conclusione, i fari non sono solo monumenti storici o semplici strumenti di navigazione; sono simboli di perseveranza umana, bellezza architettonica e connessione con il mare.

Attraverso la loro presenza imponente e le loro storie affascinanti, i fari continuano a incantare e ispirare coloro che li visitano, offrendo un'opportunità unica di scoprire l'incanto del mondo marittimo.

 


Le Case a Corte del Salento: tradizione, architettura e socialità

Nel Salento, la casa a corte si distingue come una tipica abitazione contadina, contraddistinta da uno spazio scoperto, sia comune che privato, con accesso diretto dalla strada e circondato da una o più unità abitative. Questo modello abitativo ricorrente nel territorio salentino si origina da un modulo base, solitamente un singolo vano rettangolare, posizionato centralmente all'interno di un lotto e adiacente su un lato, creando un corridoio che collega la corte antistante alla parte posteriore destinata all'orto.

Gli spazi esterni hanno un'importanza predominante rispetto a quelli interni. Sebbene l'orto fosse essenziale per la coltivazione dei prodotti necessari alla famiglia, è il cortile a costituire il fulcro della casa, concepito come un ambiente polifunzionale utilizzato per lavoro, deposito, ricovero degli animali da lavoro e soprattutto come luogo di socializzazione, intrattenimento e svago.

 

L’origine

Questo modello abitativo rappresenta un'evoluzione della capanna con cortile antistante, inizialmente costruzioni povere a singola cellula che in seguito si svilupparono diventando "pluricellulari".

Le origini di questa particolare tipologia edilizia, comunemente conosciuta come casa a corte, sono determinate da diversi fattori. È un sistema abitativo che deriva sia da fattori climatici e fisici legati allo sfruttamento del suolo, sia dalle vicende storiche che hanno lasciato segni profondi in questa regione. Tuttavia, è difficile stabilire quale dei due fattori abbia giocato un ruolo predominante nella sua nascita. È probabile che entrambi abbiano contribuito, insieme all'organizzazione familiare, a determinare lo sviluppo di questa particolare forma abitativa.

 

Evoluzione

Nei grossi centri, dove le condizioni economiche erano meno precarie, alla tipologia elementare della casa a corte con recinto antistante si è affiancata una tipologia più articolata con distribuzioni di spazi più evolute.

Nell'evoluzione di questo modello abitativo, i vani abitativi sono sempre rialzati rispetto al terreno e coperti da volte a botte, mentre i piani bassi sono adibiti a cantine, stalle, ripostigli e legnaie.

L'ingresso allo spazio scoperto del cortile è preceduto da un vano carraio coperto chiamato ‘sappuertu’ o ‘simportu’, sufficientemente grande da contenere il carro agricolo, la mangiatoia per il cavallo, la pila per il bucato, il pozzo e la cisterna per attingere l'acqua. Questo vano consentiva agli abitanti della corte, soprattutto alle donne, di riunirsi per conversare, cucire, socializzare, fare il bucato o trasformare i prodotti della campagna.

Rispetto al modello originario, le corti si sono arricchite di un elemento nuovo: la scala. Realizzata in pietra e incorporata nelle costruzioni, la scala era presente solo nella parte superiore, quindi si rendeva necessario aggiungere una scala a pioli da appoggiare alle pareti. Questo impediva agli estranei l'accesso alle terrazze, spesso utilizzate per essiccare il cibo.

La scala diventava un elemento qualificante, con massicci archi a tutto sesto e diverse rampe che creavano effetti sorprendenti, rappresentando un elemento architettonico di connessione tra la riservatezza della corte e la pubblica strada. Inoltre, oltre ad accedere alle terrazze o alle abitazioni, la scala conduceva anche a un elemento architettonico tipico del Salento: il mignano.

Questo elemento, un palco sospeso sopra il vano carraio della casa a corte, era affacciato sia sulla pubblica strada che sulla corte stessa. Il mignano, posto a breve distanza dall'arco del portone d'ingresso, consisteva di balconate sostenute da mensole robuste decorate, occupando spesso l'intero prospetto sulla strada.

Il mignano, eredità di antichi palchi sospesi o logge, trovava la sua applicazione naturale soprattutto nell'area salentina, dove il processo di bizantinizzazione ha influito sulla cultura e sull'arte. Consentiva alle donne di partecipare discretamente alla vita della città, offrendo un punto di osservazione senza essere viste.

 

Tecniche costruttive e materiali

I materiali di scarsa qualità e le tecniche costruttive rudimentali hanno accelerato il deterioramento fisico della casa a corte, rendendo complicato il suo restauro e la sua manutenzione.

La facciata dell'abitazione è estremamente semplice, con un timpano che segue l'inclinazione del tetto a due spioventi, dove si trovano i canali per il drenaggio delle acque piovane, solitamente realizzati con blocchi di pietra calcarea disposti in parallelo per adattarsi ai diversi livelli dei tetti. L'acqua piovana veniva poi raccolta in enormi cisterne.

Le facciate di tutte le unità abitative, di solito dipinte di bianco, si affacciano sull'ampio spazio aperto della corte in modo uniforme, senza evidenziare i confini delle diverse famiglie. I muri bianchi, trattati con calce, accentuano i contrasti e riflettono la luce.

Le varie strutture murarie e le coperture dei vani rivelano anche le diverse epoche in cui le varie cellule sono state costruite. Le stanze realizzate più recentemente presentano volte poggianti su robusti pilastri, mentre le cellule originarie mostrano le classiche coperture con embrici.

Il tetto era composto da un sottofondo di canne sorrette da travi di legno e coperto da tegole a due falde. Le canne costituivano un'antica tecnica per la realizzazione di soffitti e tetti dotati di proprietà fonoassorbenti, strutturalmente robusti e flessibili allo stesso tempo.

Per quanto riguarda i pavimenti interni, erano realizzati con lastre di pietra calcarea molto compatta, conosciute come "chianche" (pietra di Cursi).

 

Struttura e arredi

Nella semplice casa a corte, costituita da una singola stanza, risiedeva il nucleo familiare. Un elemento cruciale, situato nella cucina, era il focolare con il suo fumaiolo, che non solo rappresentava il fuoco abitativo, ma anche un simbolo dell'unità familiare. Solitamente posizionato accanto alla porta d'ingresso, il focolare era di dimensioni considerevoli, con un basamento ampio e un architrave decorato con motivi floreali a bassorilievo, diventando l'elemento decorativo principale della casa.

La cucina fungeva anche da soggiorno e stanza di lavoro, oltre che per accogliere le visite. I letti, talvolta sovrapposti durante il giorno per risparmiare spazio, potevano essere collocati dietro un rincasso della parete. Il tavolato del letto veniva mantenuto sollevato dal pavimento per consentire lo stoccaggio di provviste agricole sotto di esso.

La porta che dava sulla corte era dotata di un infisso in legno e di un foro circolare in basso per il passaggio del gatto, mentre una finestra permetteva l'illuminazione naturale e la ventilazione. Nel giardinetto esterno, si svolgevano varie attività domestiche, come la macinazione del grano, il lavaggio dei panni, l'approvvigionamento d'acqua dal pozzo e l'essiccazione di prodotti agricoli.

Nello spazio aperto della corte, trovavano posto accessori comuni a tutte le famiglie, come la cisterna per l'acqua, il lavatoio chiamato "pila" e i sedili in pietra per le serate estive. Coperchi circolari di pietra indicavano la presenza di pozzi asciutti chiamati "fogge", utilizzati per conservare grano e cereali. Un altro elemento, seppur in disuso, era lo stompo, un mortaio di pietra cilindrico per pestare il grano duro. Infine, il forno per la panificazione era raramente presente nella corte, poiché il pane veniva generalmente cotto nei forni rustici di uso pubblico.

 

Tipologie di case a corte nel Salento

Le diverse tipologie di corti nel Salento riflettono la varietà e la complessità delle abitazioni rurali presenti nella regione. La più diffusa è la "corte chiusa", contraddistinta da un unico ingresso principale, un portone ad arco a tutto sesto, spesso munito di infisso in legno a due battenti, che separa completamente lo spazio cortile dalla strada. Altre configurazioni includono:

- Le "case a corte aperte", che formano veri e propri complessi urbanistici.

- Le "corti private", abitate da una sola famiglia, spesso più agiata.

Esaminando più da vicino le corti chiuse, si distinguono due varianti principali. Il primo tipo, più arcaico, si trova principalmente a sud di Lecce, in zone dove l'agricoltura cerealicola dominava l'economia e la vita quotidiana. Il secondo tipo è più articolato ed è tipico dei centri più grandi, dove le condizioni di vita erano migliori. Qui, i vani erano più elevati e coperti da volte, mentre i piani inferiori erano utilizzati come scantinati, cantine o stalle. In queste corti compaiono spesso scale a varie rampe e i caratteristici "mignani".

Nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano, si trovano esempi di case a corte simili a quelle greche, con il cortile al centro e le abitazioni, le stalle e i magazzini che vi si affacciano. In alcune vie di Martano, così come nei centri di Castignano dei Greci e Martignano, si osserva la presenza di due cellule abitative di dimensioni diverse, affiancate nello stesso cortile, seguendo lo schema comune delle case "plurifamiliari". Un esempio notevole è la "Corte Grande" a Martano, con due cellule primarie disposte una accanto all'altra, che chiudono due passaggi scoperti originari

A Vernole, un intero quartiere è formato da cellule abitative affiancate, con recinto antistante e giardino retrostante. Questo insieme rappresenta uno dei più significativi esempi di edilizia salentina, con 51 nuclei familiari che vanno dalle famiglie più numerose a quelle più piccole.

 

Il ruolo della casa a corte

La casa a corte svolge principalmente la funzione di essere un punto di incontro e di socializzazione per la famiglia. È un esempio chiaro di come un elemento di aggregazione venga utilizzato in modo collettivo per garantire risorse di sopravvivenza, ed è pertanto rispettato e protetto.

Oltre a soddisfare le esigenze materiali, fornendo accesso a risorse come il pozzo, la pila e il granaio, la corte risponde anche a bisogni affettivi. Dopo una giornata di duro lavoro nei campi, i membri della famiglia si riuniscono nel cortile per raccontare storie, ascoltare e socializzare, cercando così di sfuggire all'isolamento che caratterizza la vita rurale. Diventava così un punto di riferimento per famiglie dello stesso ceto sociale, spesso unite da legami di parentela, riunendosi intorno al pozzo e condividendo attività quotidiane, discussioni e momenti di ritrovo. Inoltre, la necessità di riunione tra famiglie nasce dalla volontà di proteggersi dai pericoli delle campagne e della malaria, e di stabilire relazioni sociali importanti per l'ingaggio di manodopera nei mercati locali.

La casa a corte contemporanea

La casa a corte è stata recentemente reinterpretata, evidenziando un rinnovato interesse per lo spazio domestico racchiuso. La corte, simbolo di isolamento individuale, rappresenta una porzione del territorio delimitata, con il suo prospetto principale rivolto all'interno e le murature esterne che assumono un ruolo secondario. La corte non è uno spazio completamente aperto, ma piuttosto una zona di rappresentanza con un'ampia apertura nella copertura per aerazione e illuminazione.

L'architettura di queste abitazioni sembra rispondere alla necessità di sopravvivere all'anonimato e alla frenesia delle moderne metropoli. Negli ultimi anni, la struttura della casa a corte è stata adottata anche nei grandi agglomerati urbani. La disposizione tipica prevede un cortile centrale con balconi che si affacciano sulle pareti interne, facilitando l'accesso alle unità abitative. Tuttavia, la caratteristica umana fondamentale è la socializzazione, e in un'epoca in cui la tecnologia può portare alla distanza emotiva, le case a corte offrono un'opportunità di incontro e dialogo. Gli spazi comuni consentono agli abitanti di interagire, iniziando con un semplice saluto che può evolversi in una conversazione e una conoscenza reciproca.


Il mercato immobiliare nel 2021

Il mercato immobiliare nel 2021

 

Nel Febbraio del 2021 su questo blog avevamo provato ad analizzare l’ impatto della pandemia causata dal Virus COVID 19 sul mercato immobiliare italiano, concentrandoci in particolar modo sul mercato immobiliare residenziale. Ne era emerso un quadro le cui tinte erano meno fosche di quanto ci si potesse aspettare, un calo del 14% delle transazioni complessive per l’ anno 2020 era più che giustificato dai mesi di lockdown totale, una lenta ripresa nei mesi estivi dello stesso anno e di nuovo il calo dovuto alla risalita dei contagi ed alle nuove restrizioni conseguenti contribuivano a creare un clima di fiducia parziale, condizionata dall’ esito della campagna vaccinale nazionale ed al rimbalzo del quadro economico generale.

 

Ora che oltre l’ 80% dei cittadini italiani ha ricevuto almeno la prima dose del vaccino e le previsioni per il PIL italiano viaggiano tutte intorno al valore del +6%, proviamo a fare di nuovo il punto della situazione. Per avere un’ analisi il più coerente possibile con quella del Febbraio scorso, useremo le stesse fonti, ovvero i dati di Istat, Agenzia delle Entrate e Nomisma.

 

 

La tendenza generale del mercato

 

Nel secondo trimestre del 2021 i prezzi delle case sono saliti: lo conferma la recente pubblicazione dell’Indice Istat, tale rialzo dei prezzi delle case è dovuto soprattutto all’aumento dei valori delle abitazioni nuove (+2%), mentre crescono di poco i prezzi delle abitazioni esistenti (+0,1%). Ma anche sul fronte delle compravendite si registra un’espansione dei volumi, specie nel residenziale, come riporta l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate.

La crescita dunque è doppia e riguarda tanto “il costo del mattone” quanto il mercato, come riporta sempre l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate: tra Aprile e Giugno di quest’anno le compravendite, nel residenziale, sono aumentate del 73,4% rispetto al 2020 (periodo, quest’ultimo, che ovviamente ha risentito delle restrizioni e delle difficoltà legate al periodo pandemico). Secondo Nomisma anche le previsioni per il mercato residenziale dei prossimi anni sono coerenti con il clima di miglioramento e fiducia in atto. Le compravendite, come detto, torneranno intorno alle 600mila nel 2021, per raggiungere le 651 mila nel 2023, recuperando i livelli previsionali del 2019. Le intenzioni d’acquisto (si tratta, in particolare, di acquisto della prima casa o sostituzione della stessa) hanno dunque subito un’impennata: si è passati da 2,4 milioni a 3,3 milioni di famiglie propense a investire nel settore immobiliare nell’ultimo anno.

Sempre secondo Nomisma l’interesse degli italiani si sta nettamente spostando verso l’acquisto di una abitazione in proprietà, prevalente rispetto all’affitto. Il 62% della domanda (6 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente) è rappresentata da persone che desiderano comprare una casa e l’età media degli acquirenti è inferiore ai 45 anni. Il restante 38% si orienta verso la locazione.

Un altro dato di cui tenere conto emerso dagli studi di Nomisma, è il cambiamento nelle pratiche valutative degli immobili, ad esempio, tra i vari fattori, la valutazione della performance energetica dell’immobile ha acquisito un’importanza predominante, è stato evidenziato infatti un generale repricing dovuto a interventi di riqualificazione energetica, in allineamento con quanto determinato dal Superbonus, che prevede il salto di due classi energetiche.

 

 

Effetto smart working

 

Un paragrafo del nostro articolo dello scorso Febbraio era intitolato allo stesso modo, visto l’ evidente impatto dello smart working sulle abitudini dei lavoratori durante la pandemia, ma esiste ancora un “effetto smart working”? Sì indubbiamente, ma attenzione, come evidenzia uno studio di Cushman & Wakefield, una delle maggiori società private del mercato immobiliare mondiale, il futuro degli uffici non sarà binario: non lavoreremo solo in ufficio o solo da casa, ma prevarrà un modello ibrido. L’ ufficio come l’ abbiamo conosciuto fino ad oggi non morirà del tutto, ma il suo ruolo nell’ ambito lavorativo di molti sarà indubbiamente diverso e il lavoro in ufficio sarà meno frequente rispetto a prima della pandemia. È lecito dunque prevedere che la “fuga dalla città” in favore delle campagne e dei sobborghi sarà una tendenza del mercato immobiliare ancora per lungo tempo.

 

Ecobonus

 

Come procede la misura? A un anno dal lancio del Superbonus 110%, sempre secondo gli studi di Nomisma, emerge che gli interventi asseverati stanno crescendo, ma non alla velocità attesa, soprattutto a causa dell’incertezza normativa. Si evidenzia, in particolare, una diminuzione delle famiglie potenzialmente interessate, rispetto a maggio 2020, e ancora un ridotto tasso di coinvolgimento dei condomini che, ricordiamo, sono le principali realtà per cui è stata pensata l’iniziativa. Per ulteriori approfondimenti sull’ ecobonus e gli altri bonus casa, trovate altri articoli nella nostra sezione Blog.