L’origine della vite

Si dice che la vite compaia per la prima volta oltre 200 milioni di anni fa in varie zone del pianeta. Vari fossili testimoniano la presenza della vite nelle zone europee dov’è attualmente coltivata da almeno un milione di anni, soprattutto in regioni dell’Asia minore (Caucaso, Mesopotamia), dove sembra nasca anche la vinificazione, databile al 4100 a.C. Furono i Fenici a portare la vite e il vino in Grecia. Successivamente gli antichi Greci colonizzarono l’Italia meridionale (Magna Grecia), facendo arrivare la coltivazione della vite nella Penisola. La vitivinicoltura venne poi ripresa prima dagli Etruschi, poi dagli antichi Romani. L’origine del vino come bevanda deriva sicuramente dalla fermentazione spontanea dei succhi d’uva, in seguito elaborati e codificati in procedure che si sono affinate di generazione in generazione.

 

Il vino nell’epoca Romana

È ai Romani che si deve la diffusione della vite in quasi tutti i territori dell’Impero. Inoltre proprio ai Romani possiamo far risalire le origini della moderna enologia. Un aneddoto peculiare è quello riferito a due termini dell’epoca romana. La parola “vinum” che stava ad indicare un vino miscelato con altri prodotti, come il miele, le resine e acqua, un vino quindi non puro. Il secondo termine invece era “merum” che si utilizzava per indicare il vino puro, senza nessuna miscelazione. Questa parola a differenza della prima è utilizzata ancora oggi solo nel dialetto pugliese. Infatti, il buon vino viene chiamato “mieru”.

 

Il vino dal medioevo in poi

La decadenza della civiltà Romana, culminata nel 500 d.C. con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente ci porta nel Medioevo. In questi anni non ci sono state o perlomeno non ci sono pervenute sostanziali prove di progressi tecnici dal punto di vista agronomico ed enologico. L’impiego del vino nei riti cristiani, e l’opera di riscrittura degli antichi trattati da parte dei monaci, ha fatto sì che i principi dell’enologia e della coltivazione della vite venissero tramandati fino al Rinascimento. Se ne parla nel Mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (del 1163-1165), nel riquadro del mese di Agosto, dove si raffigura un contadino, che impugna con la mano destra uno strumento munito di lama e che pigia con il piede sinistro in un recipiente i grappoli già tagliati da una vite. Con i mesi di Settembre e di Ottobre viene completata la raffigurazione del ciclo della coltivazione dell’uva e della produzione del vino.

Durante il Rinascimento la selezione naturale e la mano dell’uomo porta alla definizione dei territori maggiormente vocati per la viticoltura.

Il 1800 segna la nascita dell’agricoltura industrializzata e porta notevoli progressi anche in campo enologico.

La prima trasformazione colturale di una certa portata si verificò intorno al 1870 e si protrasse con straordinaria intensità sino ai primi anni del ‘900: l’area vitata in Puglia passò da 90 a circa 300 mila ettari.

 

Il palmento e la produzione del vino

I palmenti sono antichi impianti di produzione del vino costituiti da vasche scavate nella roccia, di forma rettangolare o circolare, comunicanti attraverso un foro, utilizzate sia per la pigiatura dell’uva sia per la fermentazione dei mosti. Il nome deriva dal latino palmes palmitis, tralcio di vite, o da paumentum, l’atto di battere, pigiare.

I palmenti salentini di epoca bizantina erano scavati nella roccia, e li venivano schiacciate le uve. Uno degli esempi più importanti di questa tipologia lo ritroviamo a Carpignano Salentino, in località Stigliano.

Dove non c’era roccia friabile, il palmento veniva costruito in muratura, impermeabilizzando le vasche. L’uva versata nella prima vasca, il cui foro veniva otturato con argilla,  veniva pigiata con i piedi e lasciata riposare lì per un giorno ed una notte; quindi, eliminato il tappo, si lasciava defluire il mosto nella seconda vasca. Infine il mosto veniva riposto nelle anfore vinarie.

Su qualche palmento è incisa una croce di sicura derivazione bizantina, riconoscibile dalla semifera con cui termina il braccio verticale.

Le croci potrebbero essere state incise dai Bizantini su palmenti precedentemente scavati da altri che essi intesero utilizzare per la loro redditizia attività vitivinicola, come attestano i resti di anfore vinarie magnogreche, presenti sulle coste del mediterraneo fino a tutto il periodo della dominazione bizantina.

Nel corso dei secoli i progressi della lavorazione dell’uva e della produzione del vino sono andati di pari passo con l’evoluzione delle caratteristiche strutturali del palmento, e così come l’uva ha iniziato ad essere lavorata tramite l’uso dei torchi, contemporaneamente il palmento ha iniziato a ingrandirsi e arendersi strutturalmente più complesso.

 

L’evoluzione dei palmenti nel tempo

I palmenti sono nati come semplici strumenti per la produzione del vino, ovvero due piccole vasche in aperta campagna, e nel corso dei secoli la loro forma e struttura è andata affinandosi e ampliandosi. Troviamo palmenti scavati nella roccia, come il palmento sito in agro di Uggiano, costituito da un ambiente interamente scavato nella roccia, formato da un unico grande vano con sedili in pietra, una vasca e un punto apposito per la localizzazione dei torchi, accompagnati da numerose croci incise nella roccia, e dal palmento sito ad Alessano sito in località Macurano, che accompagna le altre strutture rupestri presenti sul luogo.

Con l’evoluzione della pajara (trullo troncoconico) e l’avvento della liama o lamia, si presentano attività agricole più complesse rispetto alla raccolta delle olive, legate alla viticoltura, al ficheto al vigneto e come tale si presta anche come dimora stagionale del contadino, che la utilizza durante il periodo dei raccolti e ne trasferisce tutta la famiglia. Alla liama, infatti, si accosta comunemente un piccolo forno per la panificazione e per la torrefazione dei fichi mentre all’interno, non di rado, si trova anche la cisterna per la raccolta delle acque piovane e un palmento per pigiare l’uva. Liame con forno e palmento le troviamo presenti soprattutto in prossimità di terreni più fertili, tra Acquarica, Presicce e il feudo di Ceddhe, dove, in prossimità della liama, si possono pure trovare grossi blocchi di pietra calcarea utilizzati come base dei torchi per la spremitura della pasta dell’uva. Il Palmento Baroni, nei pressi della Cappella della Madonna di Pompiniano, proprio sul tracciato della Via Sallentina, rappresenta una testimonianza significativa della presenza del vigneto su terreni attualmente occupati dall’olivo. A pianta quadrata o rettangolare, con i muri perimetrali realizzati con pietrame disposto a secco, le liame sono coperte da volta a botte e quindi più rispondenti alle esigenze abitative. Proprio per questa loro ultima caratteristica le liame e i loro palmenti, negli ultimi anni, sono state oggetto di ristrutturazioni e interventi di recupero, che hanno dato vita ad abitazioni ricche di charme, che impreziosiscono la campagna salentina.

 

Successivamente, con l’evoluzione agricola e architettonica, è la volta di palmenti annessi a Masserie o Casini, e questo tipo di soluzione è diffusissima nella campagna di Presicce. Gli esempi più significativi sono il Casino Stefanelli, Casino Cazzato, Casino Sant’Angelo, Casina dei Cari,  e quest’ultima oggi, come nel caso di altre numerose strutture, è stata recuperata e trasformata in relais di lusso, luogo dove il palmento annesso trova nuova vita e utilizzo. Spostandoci nelle campagne di Carpignano Salentino, in località Stigliano, incontriamo il Palmento Casina Villani, ristrutturato nel 1939, ma costruito fine 1800, dove gran parte della struttura era occupata dal palmento di grandi dimensioni, voltato a stella.

In epoche più recenti i palmenti hanno iniziato a essere presenti anche nei centri abitati, sia ad esclusivo uso di abitazioni private, dove sono diventati parti integranti dell’abitazione con eventuali successive ristrutturazioni, e sia di uso comune alla popolazione. Quest’ultima ipotesi è rappresentata soprattutto quando troviamo strutture di grandi dimensioni, dei veri e propri stabili adibiti alla lavorazione del vino, realizzati in mattoni di tufo e con tipiche volte a stella e a botte. Gli esempi più significativi li troviamo uno in prossimità di Collepasso, dove c’è grande palmento costruito in elevato, che reca la data 1749, e all’esterno conserva ancora le “caviglie” dove i lavoratori legavano asini e cavalli coi quali giungevano qui a lavorare; mentre l’altro è presente a Morciano di Leuca, dove ha sede la struttura pubblica denominata “palmenti”, unica nel suo genere, appartenente a un patrimonio rurale, storico e culturale di notevole valore. La struttura è di proprietà pubblica dal 2005, e l’amministrazione comunale ha praticato una radicale ristrutturazione del locale, preservando così un importantissimo esempio di archeologia proto-industriale del territorio. La struttura dei Palmenti e dell’annesso Vano del Torchio è ubicata all’interno del centro storico, e apparteneva all’adiacente Palazzo Bitonti.

Questo ha permesso, in tempi moderni, che le tipologia di palmenti appena descritte possano essere recuperate, ristrutturate e convertite in vere e proprie unità abitative.

I palmenti, anche se oggigiorno non vengono più utilizzati per il loro scopo originario, sono ancora una parte viva e attiva all’interno dell’architettura del Salento, sono testimonianze di un’epoca antichissima, ma ancora oggi viva nel presente.