Il Carnevale in Salento: Storia, Maschere e Tradizioni tra Sacro e Profano

Il Carnevale è una delle feste più sentite in Salento, una celebrazione ricca di storia, tradizioni e personaggi simbolici che raccontano il legame profondo tra cultura popolare e territorio. Dalle sfilate allegoriche ai riti di passaggio legati alla Quaresima, il Carnevale salentino è un mix di allegria, satira e tradizione, con maschere uniche. Ma non solo: questa festa si intreccia anche con l’architettura e il paesaggio salentino, creando un connubio affascinante tra la teatralità barocca e l’anima della comunità locale.

 

Le Origini del Carnevale Salentino

Le radici del Carnevale in Salento affondano nelle antiche celebrazioni pagane legate ai cicli della natura e alla fertilità. Durante l’epoca romana, i Saturnali concedevano ai cittadini giorni di festa e sovvertimento delle regole sociali, una tradizione che, con l’avvento del Cristianesimo, si è trasformata nel Carnevale, periodo di abbondanza prima della penitenza quaresimale.

Nel corso del tempo, il Carnevale ha assunto sfumature uniche nel territorio salentino, sviluppando personaggi iconici e rituali che ancora oggi sopravvivono nelle feste popolari di numerosi borghi e città.

 

Le Maschere Tipiche del Carnevale Salentino

 

Il Purgianella: La Maschera di Castrignano del Capo

Il Purgianella è la maschera, figlia del personaggio classico di Pulcinella, che rappresenta il Carnevale di Castrignano del Capo (LE), nonché l’identità storica degli abitanti locali.

Indossa dei calzoni lunghi e un ampio camicione bianco stretto alla vita per trattenere al di sotto dei coriandoli, un tempo sostituiti dalla crusca, simbolo di fertilità e abbondanza. Della stessa valenza semiotica sono i limoni che i purgianelli portano gelosamente con sé.

La vera caratteristica della maschera è il suo incantevole copricapo a cono, costruito con le canne e addobbato con pennacchi e centinaia di nastrini di carta colorata, creando una variopinta criniera al vento che ricorda l’apertura alare dei pavoni, gesto tipico di corteggiamento. Alla sua estremità, il copricapo ha tre pumi portafortuna, richiamo ancora dell’amore.

A completare l’abito sono gli scialli sulle spalle, di diversa fantasia ma sempre molto curati, e una mascherina nera in volto. Talvolta presentano bandane al collo o fazzoletti alla vita.

Il Purgianella va a “caccia” delle dolci fanciulle, attirandole con l’agrume e inondandole di coriandoli o, in passato, di crusca. Più che corteggiate, le ragazze venivano spaventate, da qui il detto locale: «ci vide lu Purgianella cu sse chiude e cu sse ’nserra» ("Chi vede il Purgianella si chiude e si barrica dentro").

 

Lu Paolinu: La Morte de lu Paulinu

A Martignano e nella Grecìa Salentina, il Carnevale si chiude con "La Morte de lu Paulinu" (La Morte di Paolino), un rito che rappresenta il passaggio dalla baldoria alla penitenza quaresimale. Lu Paulinu "Cazzasassi" (Paolino Schiacciasassi) è il fantoccio che impersona il Carnevale stesso, celebrato con un corteo funebre teatrale in cui attori locali inscenano una tragicomica commedia. Il corteo attraversa le strade del paese accompagnato da una banda musicale sconquassata e si ferma davanti alle case più in vista e nei negozi, che offrono cibo e vino.

A mezzogiorno si svolge il tradizionale "consulu", un banchetto pubblico gratuito in Piazza della Repubblica, a base di trippa, patate e vino, in onore della vedova inconsolabile Nina Sconza e di tutti coloro che partecipano al lutto di Paulinu. La serata si conclude con il rogo del fantoccio e la collocazione della "Quaremma", simbolo dell’inizio del periodo di penitenza.

 

La Caremma: Il Simbolo della Quaresima

Caremma è uno dei personaggi più simbolici e affascinanti del Carnevale salentino, incarnando un legame profondo con le tradizioni religiose e popolari della regione. Questa figura, una vecchia vestita di nero con un fuso in mano, rappresenta la Quaresima, quel periodo di digiuno e penitenza che segue il Carnevale, segnando il passaggio dall'esuberanza delle feste alla sobrietà dei 40 giorni di preparazione alla Pasqua.

Il suo aspetto è volutamente austero e severo, per rispecchiare il significato di sacrificio e rinuncia che la Quaresima porta con sé. Caremma non è solo una figura di transizione, ma anche un simbolo di una ritualità antica, che segna la fine di un ciclo di abbondanza e libertà, per dare spazio a un tempo di riflessione e austerità. Nella tradizione popolare salentina, Caremma fungeva anche da "calendario vivente" per il periodo quaresimale. Con un fuso in mano, strappava una penna o una parte di un simbolo ogni settimana che passava, un gesto che segnava il tempo e ricordava a chi la osservava il percorso di purificazione e attesa che stava per affrontare. Ogni settimana di privazione veniva "archiviata" in questo modo, conferendo a Caremma una funzione quasi educativa, che insegnava la pazienza e la disciplina.

La figura di Caremma, dunque, è più di una semplice maschera carnevalesca: essa incarna un equilibrio tra il profano e il sacro, tra la festa e il momento di riflessione, un simbolo della dualità che attraversa il Carnevale salentino, dove il divertimento e la gioia lasciano spazio alla serenità del digiuno e della penitenza, segnando un passaggio imprescindibile verso la Pasqua. La sua presenza nelle celebrazioni carnascialesche diventa un monito di come, anche nei momenti di festa, ci sia un ciclo da rispettare, una tradizione da onorare, che porta con sé un significato profondo e di grande valore simbolico per la comunità.

 

 

Le Tradizioni e i Riti del Carnevale Salentino

Oltre alle maschere, il Carnevale salentino è caratterizzato da riti e usanze che riflettono l'identità culturale del territorio:

  • I Carri Allegorici: Città come Gallipoli, Galatina e Corsano ospitano sfilate di carri realizzati artigianalmente, spesso con figure satiriche ispirate all’attualità.
  • Le Serenate Carnevalesche: In alcuni paesi, il Carnevale è accompagnato da canti popolari e danze tradizionali, in particolare la pizzica.
  • Il Rogo del Fantoccio: In molte località salentine, il Carnevale si conclude con il rogo di un pupazzo di paglia, che simboleggia l’addio alla festa e l’ingresso nella Quaresima.

 

Il Legame tra il Carnevale e l’Architettura Salentina

L’architettura del Salento è strettamente connessa allo spirito carnevalesco, soprattutto nelle città barocche come Lecce e Nardò. Il Barocco leccese, con le sue decorazioni elaborate, gli eccessi scenografici e la teatralità delle sue facciate, rispecchia lo spirito esuberante del Carnevale, in cui tutto diventa spettacolo e messa in scena.

Le piazze storiche, cuore della vita comunitaria, si trasformano in palcoscenici a cielo aperto durante il Carnevale, dove maschere, attori e spettatori si mescolano in un gioco collettivo di festa e riflessione.

Le masserie salentine, un tempo centri della vita contadina, hanno ospitato per secoli festeggiamenti più intimi e rituali legati ai cicli agricoli, facendo del Carnevale un momento di passaggio tra l’inverno e la primavera.

 

Conclusione

Il Carnevale in Salento non è solo una festa, ma un rituale collettivo che racconta la storia, la cultura e le trasformazioni del territorio. Attraverso figure come Caremma, Paolinu e Purgianella, questa tradizione continua a vivere, intrecciando satira, spiritualità e divertimento. Se vuoi immergerti nell’autentica atmosfera del Salento, il Carnevale è il momento perfetto per scoprire le sue maschere, le sue usanze e il fascino della sua architettura senza tempo.

 


Frutti d’Oro e Pietra Bianca: Gli Agrumi nell’Estetica e nella Storia del Salento

Un dono divino: il mito greco degli agrumi

Secondo la mitologia greca, quando Giunone si unì in matrimonio con Giove, gli donò in dote alcuni alberelli che producevano splendidi frutti d’oro, arance e limoni, simboli eterni di amore e fertilità. Questo significato simbolico perdura ancora oggi, come dimostra la tradizione di utilizzare i fiori di zagara nei bouquet nuziali.

Giove considerò quei doni così preziosi da custodirli gelosamente in un magnifico giardino, situato in una regione remota del mondo conosciuto all'epoca, ai piedi del Monte Atlante. Per proteggere queste piante leggendarie, incaricò le Esperidi, giovani fanciulle dal canto melodioso, assistite nella loro missione dal drago Ladone.

Nonostante queste precauzioni, Giove non riuscì a impedirne il furto. Durante la sua undicesima fatica, Ercole riuscì a impossessarsi degli alberi dopo un’estenuante lotta che vide soccombere Ladone. Da quel momento, gli agrumi divennero accessibili anche agli esseri umani, mantenendo comunque il loro legame con la divinità attraverso il termine greco esperidio, utilizzato in botanica per indicare il frutto degli agrumi.

Dall'Asia al Mediterraneo: il lungo viaggio degli agrumi

La coltivazione degli agrumi iniziò nella loro regione di origine, l’Asia orientale, intorno al 2400 a.C. Il loro percorso verso il Mediterraneo fu lento e progressivo, passando attraverso l’India e il Medio Oriente. Tuttavia, sembra che i Romani conoscessero solo il cedro e il limone, come testimoniato da affreschi e mosaici dell’epoca. Fu solo intorno al VII secolo che gli Arabi introdussero in Sicilia l’arancio amaro, conosciuto anche come melangolo.

Sebbene molte fonti autorevoli attribuiscano agli Arabi anche l’introduzione dell’arancio dolce, non esistono prove storiche o letterarie a sostegno di questa tesi. Di conseguenza, diversi studiosi ritengono che i Portoghesi siano stati responsabili della sua diffusione, coincidente con l’inizio della loro espansione coloniale nel 1415. Una testimonianza a sostegno di questa ipotesi si trova nel diario della prima missione orientale di Vasco de Gama, in cui viene descritto l’incontro con arance dolci: "sonvi melancie assai, ma tutte dolci...". È probabile che i Portoghesi abbiano scoperto questi frutti in Oriente e li abbiano introdotti in Europa. Ulteriore conferma è il fatto che l’arancio dolce sia stato chiamato Portogallo, un nome che persiste in diversi dialetti meridionali, come quelli calabresi e salentini (portagallu).

Gli agrumi nel Salento: diffusione e importanza

Gli agrumi, come arance, limoni e cedri, non sono originari del Salento. Furono introdotti nell'area mediterranea grazie agli scambi commerciali con l'Oriente, probabilmente dai Fenici e successivamente dagli Arabi. Durante il Medioevo e il Rinascimento, queste colture si diffusero nel Salento, grazie al clima mite e al terreno fertile che favoriscono la loro crescita rigogliosa.

I giardini di agrumi divennero parte integrante della cultura agricola locale, e ancora oggi è possibile trovare aranceti e limoneti che adornano le campagne salentine, specie nelle zone più umide e riparate dai venti.

Il simbolismo degli agrumi: tra religione e leggende

Nel corso dei secoli, gli agrumi hanno acquisito un ruolo importante non solo dal punto di vista economico, ma anche simbolico.

Anticamente, e soprattutto nel periodo Medievale, l’arancia è simbolo d’amore: da donare, ricevere, scambiare. In ambito cristiano, insieme al cedro e al limone, l’arancia simboleggiava la santissima Trinità: i tre agrumi, distinti nella forma, sono unici nella sostanza. Limoni e aranci venivano piantati nel giardino di casa come nei portici delle chiese, simboleggiando gli antenati e le anime nei corpi mortali. Secondo una diffusa leggenda, che si ricollega al passaggio di San Francesco in Salento, anche a Lecce, nell’oratorio accanto alla chiesa e convento francescano, il serafico padre piantò un albero d’arancio. Accadde pure che un giorno san Francesco, non riuscendo a sfamare i suoi compagni, chiese la carità a un devoto il quale, profondamente mortificato per non aver nulla da offrirgli, chiuse la porta. Per nulla turbato, san Francesco bussò una seconda volta, ma ottenne la stessa risposta. Riprovò una terza volta e l’uomo, a disagio per non poter accontentare il questuante, gli disse che in casa non aveva neppure un briciolo di pane. Anzi, proprio in quell’anno, pure l’unico albero di arancio che possedeva in giardino non aveva dato frutto. San Francesco chiese di essere accompagnato vicino a quell’albero e fu immenso lo stupore del padrone di casa quando vide che la sterile pianta era cresciuta rigogliosamente e aveva un grande carico di frutti meravigliosi.

Agrumi e arte nel Barocco Salentino

Durante il periodo barocco, il Salento visse un'epoca di grande fermento artistico e culturale, e gli agrumi venivano considerati simboli di purezza, abbondanza e prosperità. Spesso venivano scambiati come doni preziosi o utilizzati in eventi religiosi e cerimonie.

Gli agrumi venivano anche impiegati in ambito medico e cosmetico, grazie alle loro proprietà benefiche. I commercianti locali esportavano questi frutti verso altri territori, contribuendo a consolidare l'immagine del Salento come terra ricca di risorse naturali.

La cultura degli agrumi è visibile anche nell'arte e nell'architettura del Salento. Durante il periodo barocco, gli artisti e gli architetti locali iniziarono a utilizzare decorazioni ispirate agli agrumi nelle loro opere. Facciate di chiese e palazzi, affreschi e dettagli scultorei spesso includono motivi che richiamano i frutti d'oro, simbolo di luce divina e perfezione.

Un esempio significativo è la Chiesa di Santa Croce a Lecce, capolavoro del barocco leccese. Le intricate decorazioni della facciata includono motivi floreali e naturali che richiamano la fertilità della terra salentina, tra cui spiccano dettagli che potrebbero essere ispirati agli agrumi.

Anche nei giardini storici delle ville nobiliari, gli agrumi giocano un ruolo estetico e simbolico. Gli "agrumeti recintati", chiamati "giardini segreti", erano spazi protetti dove gli aristocratici coltivavano agrumi non solo per il loro valore alimentare, ma anche per il piacere estetico e olfattivo.

Agrumi e magia popolare: le macàre e le fatture

Ancora oggi in Salento si può sentire parlare di macàre e macarìe, e specialmente nella zona della Grecìa salentina, da Soleto a Sternatia a Zollino. Storie, saghe, canti, filastrocche: sulle macàre (o “figlie della notte” come le chiamò poeticamente Petronio) c’è un’ampia letteratura, che parla di streghe e delle loro scorribande. La loro specializzazione sono le macarìe, le fatture.

La più semplice e diffusa è quella per ritrovare l’amore perduto, e la protagonista principale è proprio un’arancia. Era necessario procurarsi una ciocca di capelli dell’amato (o dell’amata) e un’arancia (simbolo del mondo). Con la cera di una candela accesa, bisognava praticare un foro al centro del frutto e inserirvi la ciocca di capelli. A questo punto, si doveva avvolgere l’arancia con uno spago e, dopo avervi fatto un nodo ben stretto, appenderla a un bastone di legno. Infine, bisognava conficcare aghi o spilli nella buccia, pronunciando a ogni puntura gli opportuni scongiuri e le rituali formule magiche. Dopodiché, l’arancia andava custodita sotto il materasso: sarebbe diventata un potente talismano, capace di far tornare in poco tempo l’amato (o l’amata), legandolo a chi aveva eseguito il rito… proprio come lo spago stretto attorno all’arancia.

Il gioco dei "puni": quando le arance diventavano passatempo

Una buca al centro, altre cinque intorno. Ci si posizionava a 4-5 metri di distanza e si lanciava un’arancia “rizza” (amara, il melangolo). Se l’arancia si fermava in una delle buche laterali, si vinceva la propria puntata; invece, chi riusciva a farla entrare in quella centrale prendeva l’intero montepremi.

Questo è l’antichissimo gioco dei “puni”, il cui nome, nelle isole linguistiche dei vecchi di Terra d’Otranto, significa “buco” o “buca”.

A Montesardo, nel Leccese, si è giocato ai puni fino a pochi anni fa, finché i vecchi giocatori non sono venuti meno. Le partite si svolgevano nei pomeriggi primaverili ed estivi, nelle belle giornate, e il campo da gioco improvvisato si trovava all’ombra della Cappella della Madonna Immacolata. Partecipavano giocatori provenienti da tutti i paesi vicini.

Oggi, nella vicina Corsano, l’Associazione “Idee a Sud-Est” organizza da nove anni il Campionato dei Puni, che quest’anno è stato aperto anche alle donne. Un gioco antico, recuperato e destinato a essere tramandato alle nuove generazioni.

Gli agrumi oggi: un'eredità ancora viva

Oggi, il legame tra il Salento e gli agrumi continua a essere forte. Molte aziende agricole locali hanno riscoperto le varietà antiche di agrumi, coltivandole con metodi biologici e sostenibili. Prodotti come marmellate, liquori (come il limoncello) e oli essenziali vengono esportati in tutto il mondo, portando un pezzo di Salento sulle tavole internazionali. In Salento, il clima mite rende questa terra ideale per la coltivazione degli agrumi. Questi alberi sono tra i più comuni nei giardini urbani e nelle aree rurali, ma è soprattutto ad Alezio e nell’interland gallipolino che la loro coltura ha raggiunto un alto livello di specializzazione. Qui, si coltivano diverse varietà di arancio dolce con maturazioni scalari, in modo da soddisfare le esigenze provinciali per un lungo periodo dell’anno. Oltre alle varietà più comuni, come l’Arancio Biondo Comune, il Sanguinello e il Tarocco, si trovano cultivar meno conosciute e numerose varietà di mandarini, limoni e agrumi rari.

Conclusione: un legame tra natura, storia e cultura

Il Salento e gli agrumi condividono una storia ricca e affascinante, che unisce natura, tradizione e arte. Questo legame non è solo una testimonianza del passato, ma anche una fonte di ispirazione per il presente e il futuro. Passeggiare tra gli agrumeti salentini o ammirare i dettagli artistici che celebrano questi frutti è un modo per scoprire l'anima profonda di questa terra unica e generosa


L’Anfiteatro Romano di Lecce: un Tesoro da Risvegliare

Lecce, soprannominata la "Firenze del Sud", è una città che incanta con il suo barocco splendente e il fascino delle sue antiche pietre. Tuttavia, dietro la sua immagine di capitale del barocco, si cela una storia ancora più profonda e antica: quella della romanità. La recente emersione di una porzione interrata dell’anfiteatro romano, avvenuta durante i lavori di pavimentazione in Piazza Sant’Oronzo, ha riacceso i riflettori su questo gioiello nascosto, portando alla luce non solo frammenti di un passato remoto, ma anche interrogativi sul futuro della città. Non si tratta solo di un recupero archeologico: si tratta di riscoprire l’identità di Lecce, che con il sito archeologico di Rudiae e altri tesori romani si pone come un centro culturale di portata globale, un unicum che può essere paragonato soltanto a Roma.

Costruito tra il I e il II secolo d.C., l’anfiteatro romano di Lecce è una delle testimonianze più importanti della romanità di Lupiae, l’antico nome della città. Si ritiene che la sua costruzione sia avvenuta per volere dell’imperatore Augusto come segno di gratitudine verso una città che lo accolse durante le guerre civili. Questa struttura, un tempo capace di ospitare tra i 12.000 e i 14.000 spettatori, era un centro nevralgico della vita pubblica e ospitava spettacoli di caccia, giochi gladiatori e cerimonie pubbliche.

L’anfiteatro, oggi visibile solo in minima parte, è un capolavoro di ingegneria. La sua struttura ellittica, scavata direttamente nel banco di pietra leccese, utilizzava un misto di tecniche costruttive: opera cementizia, opera quadrata e un raffinato sistema di scale per accedere ai vari settori. Il muro esterno, originariamente composto da 68 arcate, è oggi visibile solo per 24 pilastri, ma testimonia la grandezza dell’opera. Nel corso del tempo, l’anfiteatro fu arricchito, probabilmente in età adrianea, con un portico al secondo piano e rilievi scolpiti con scene di caccia.

L’anfiteatro non è un caso isolato: Lecce vanta un’eredità romana unica, con due teatri (incluso quello recentemente scoperto a Rudiae), due anfiteatri e due porti di epoca augustea. Questa concentrazione di testimonianze rende la città un vero e proprio museo a cielo aperto, in grado di raccontare una storia millenaria che merita di essere vissuta e apprezzata appieno.

La recente visita del sindaco Adriana Poli Bortone al ministro della Cultura Alessandro Giuli rappresenta un momento chiave per il futuro dell’anfiteatro. Durante l’incontro, il ministero ha confermato l’assegnazione di fondi per proseguire gli scavi e rendere visibili porzioni ancora sommerse del monumento. È stato inoltre istituito un tavolo tecnico, con la partecipazione di esperti come il professor Francesco D’Andria, per pianificare interventi che non si limitino alla semplice conservazione, ma puntino alla valorizzazione dell’intero sito.

Le idee per il futuro sono ambiziose: si parla di una musealizzazione innovativa, che utilizzi materiali trasparenti o segnali interattivi per evidenziare le tracce archeologiche, integrandole nella pavimentazione moderna. Tecnologie di realtà aumentata potrebbero far rivivere la città romana sovrapponendola alla Lecce contemporanea, offrendo ai visitatori un’esperienza immersiva che colleghi passato e presente in modo unico.

La valorizzazione dell’anfiteatro comporta sfide significative. Riaprire gli scavi e ampliare l’area visibile richiede una riorganizzazione degli spazi urbani, con soluzioni che minimizzino l’impatto sulla vita quotidiana della città. Tra le proposte innovative, spicca quella di un ponte sospeso per collegare Piazza Sant’Oronzo a Via Giuseppe Verdi, dimostrando come storia e modernità possano convivere in armonia.

Scoperto agli inizi del Novecento grazie agli studi di Cosimo De Giorgi, l’anfiteatro è riconosciuto come monumento nazionale dal 1906. Eppure, la sua piena riscoperta potrebbe trasformare Lecce in un epicentro culturale e archeologico, aumentando il suo prestigio a livello internazionale.

Un’efficace valorizzazione dell’anfiteatro e degli altri siti romani potrebbe rappresentare una svolta per il turismo culturale di Lecce. Oggi conosciuta per il suo barocco, la città potrebbe espandere la propria offerta puntando sulle sue radici messapiche e romane. Nuovi flussi turistici, attratti da esperienze innovative e diversificate, potrebbero contribuire a un’economia più sostenibile, incentrata su un turismo consapevole.

Progetti come “Toccare per Credere”, che rendono il patrimonio accessibile anche ai non vedenti attraverso miniature 3D, dimostrano come la cultura possa essere resa inclusiva, arricchendo il valore del patrimonio storico di Lecce.

La riscoperta dell’anfiteatro romano di Lecce non è solo un’opportunità per riportare alla luce un pezzo di storia, ma una vera e propria chiamata all’azione per l’intera comunità. Lecce ha la possibilità di ridefinire la propria identità, abbracciando le sue radici millenarie e andando oltre la sua immagine di capitale del barocco. Come ha dichiarato il sindaco Poli Bortone: *“È la storia, bellezza. Coraggio: non si può fare altro.”*
Un futuro ricco di storia e innovazione attende Lecce, pronta a risplendere ancora una volta al centro della scena mondiale.


Il barocco leccese: gli uomini ed i monumenti

In un precedente articolo su questo blog abbiamo già analizzato le origini storiche del barocco leccese, elencando alcuni eventi e circostanze che ne favorirono la nascita e lo sviluppo, dalla presenza spagnola nel Regno di Napoli alla fine della minaccia portata dall’ Impero Ottomano fino al Concilio di Trento ed alla vasta disponibilità della pregiata pietra leccese; ognuna di queste circostanze ha avuto un peso significativo nello sviluppo delle architetture che hanno ridefinito il panorama della città leccese dalla metà del Cinquecento a quella del Settecento, ma accanto alle circostanze favorevoli ed agli eventi storici, il barocco leccese deve la sua fortuna anche alla visione, alla perseveranza ed all’ impegno di alcuni personaggi storici del capoluogo salentino, quali il vescovo Luigi Pappacoda o gli architetti Giuseppe Zimbalo e Giuseppe Cino.

 

Luigi Pappacoda nel Giugno del 1639 fu chiamato a reggere la diocesi di Lecce e ne rimase vescovo fino alla sua morte, avvenuta nel 1670. Tenne due sinodi diocesani nella città nel 1647 e nel 1663 e nel 1658 approvò l'elezione dei santi Oronzo, Fortunato e Giusto a patroni di Lecce, restaurandone l’ antico culto. Nel 1659 pose la prima pietra per la costruzione della nuova cattedrale e commissionò numerose altre opere all'architetto e scultore Giuseppe Zimbalo. Alla sua morte fu sepolto nel Duomo di Lecce, nel sepolcro presso l'altare di S. Oronzo.

 

Come abbiamo visto alla figura del vescovo Luigi Pappacoda è legata quella dello scultore ed architetto Giuseppe Zimbalo, detto “lo Zingarello” (il soprannome altro non è se non l'italianizzazione del termine dialettale "Zimbarieddhu" ovvero il piccolo Zimbalo, probabilmente per distinguerlo dal padre Sigismondo, anch’ egli artista della pietra) fu l' architetto più famoso e imitato del barocco leccese. Nel capoluogo salentino l' artista realizzò la facciata inferiore del Convento dei Celestini, il Duomo, la colonna di Sant' Oronzo e la Chiesa del Rosario.

 

Per quanto riguarda l’ architetto e scultore Giuseppe Cino, egli lavorò nel capoluogo salentino a partire dalla metà del Seicento, continuando la ricerca stilistica di Giuseppe Zimbalo, di cui ad esempio terminò l’ edificazione del Palazzo dei Celestini. Al Cino si devono anche la costruzione della splendida Chiesa di Santa Chiara, la Chiesa delle Alcantarine e la chiesa del Carmine, sulle quali lavorò fino alla sua morte. Progettò anche il Seminario su commissione di Antonio Pignatelli, all'epoca nuovo vescovo di Lecce.

 

La Basilica di Santa Croce, insieme all'attiguo ex Convento dei Celestini, costituisce la più elevata manifestazione del barocco leccese. Nell' area dell'attuale basilica era già stato costruito, nel XIV secolo, un monastero, ma fu solo dopo la metà del XVI secolo che si decise di trasformare l' area in una zona interamente monumentale e per avere lo spazio necessario furono requisite tutte le proprietà degli ebrei del luogo, cacciati dalla città nell’ anno 1510. I lavori per la costruzione della basilica si prolungarono per oltre due secoli e videro coinvolti i più importanti architetti leccesi del tempo. La prima fase della costruzione durò dal 1549 al 1582 e vide la costruzione della zona inferiore della facciata, mentre la cupola venne completata nel 1590. La successiva fase dei lavori, a partire dal 1606, durante la quale vennero aggiunti alla facciata i tre portali decorati, è marcata dall'impegno di Francesco Antonio Zimbalo, poi al completamento definitivo dell'opera lavorarono successivamente Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo.

 

Molto simile è la storia del Duomo: una prima cattedrale della Diocesi di Lecce infatti venne costruita nel 1144 dal vescovo Formoso; nel 1230, per volere del vescovo Roberto Voltorico, la cattedrale venne rinnovata e ricostruita in stile romanico. Successivamente, nel 1659, il vescovo Luigi Pappacoda diede a Giuseppe Zimbalo il compito di ricostruire la chiesa in stile barocco. La costruzione finì nel 1670.  Il Campanile del Duomo venne costruito tra il 1661 e il 1682, sempre da  Giuseppe Zimbalo; venne edificato in sostituzione di quello normanno, voluto da Goffredo d' Altavilla, crollato agli inizi del Seicento, ed ha un'altezza di 70 metri; dalla sua sommità è possibile ammirare il mare Adriatico e nei giorni particolarmente limpidi anche le montagne dell' Albania.

 

Sempre nella Piazza del Duomo si affaccia il Palazzo del Seminario costruito dall’ architetto Giuseppe Cino tra il 1694 e il 1709, su commissione del vescovo Michele Pignatelli. Nell'atrio si può ammirare un pozzo decorato, sempre opera del Cino, mentre all'interno del palazzo è presente una cappella del 1696. Al primo piano del palazzo troviamo anche il "Museo diocesano" e la "Biblioteca Innocenziana", così chiamata dal nome assunto dal Papa Innocenzo XII, che era stato vescovo della città. La biblioteca contiene oltre diecimila volumi, anche di epoca quattrocentesca e cinquecentesca.

 

La Chiesa di Santa Chiara si trova nel centro storico di Lecce, in piazza Vittorio Emanuele II. La sua prima fondazione, voluta dal vescovo Tommaso Ammirato, risale al 1429; venne in seguito quasi completamente ristrutturata tra il 1687 e il 1691. La realizzazione della chiesa, rimasta priva del fastigio superiore, è anch’ essa opera dell'architetto Giuseppe Cino.

 

La Chiesa di Sant' Irene dei Teatini si trova nel centro storico di Lecce ed è intitolata a Sant' Irene da Lecce, protettrice della città fino al 1656. Fu edificata a partire dal 1591 su progetto del teatino Francesco Grimaldi e fu ultimata nel 1639, anno della consacrazione ad opera del vescovo di Brindisi. La Chiesa di Sant’ Irene è stata anche al centro di importanti vicende storiche non religiose: nel 1797 venne visitata da re Ferdinando IV di Napoli, mentre nell'ottobre del 1860 ospitò le operazioni di plebiscito per decidere il sì di Lecce ad entrare nel Regno d'Italia. Nel 1866 l'annesso Convento dei Teatini venne soppresso, ma la chiesa rimase comunque aperta al culto.

 

Vi sono ovviamente tanti esempi dello stile barocco leccese anche in altri comuni della penisola salentina, come ad esempio il Duomo di Gallipoli o la Chiesa Madre di Casarano.


Il barocco leccese: storia ed origini

Lecce

 

Biancamente dorato

è il cielo dove

sui cornicioni corrono

angeli dalle dolci mammelle,

guerrieri saraceni e asini dotti

con le ricche gorgiere.

 

Un frenetico gioco

dell'anima che ha paura

del tempo,

moltiplica figure,

si difende

da un cielo troppo chiaro.

 

Un’aria d’oro

mite e senza fretta

s’intrattiene in quel regno

d’ingranaggi inservibili fra cui

il seme della noia

schiude i suoi fiori arcignamente arguti

e come per scommessa

un carnevale di pietra

simula in mille guise l'infinito.

 

(da Dopo la luna, 1956)

 

Vittorio Bodini è stato un affermato poeta e traduttore pugliese, nacque a Bari ma trascorse la sua infanzia nel capoluogo salentino, tradusse in italiano diversi scrittori spagnoli fra cui Federico Garcia Lorca e Miguel de Cervantes. Nella sua poesia “Lecce” troviamo una splendida ed emozionante descrizione del barocco leccese e partiamo proprio da qui per parlare di questo stile architettonico che in due secoli, tra il il 1550 ed il 1730, cambiò per sempre il volto della città e la rese il gioiello che è oggi, capace di attirare visitatori ormai da tutto il mondo.

Partiamo dalle parole di un affermato traduttore di opere spagnole per una ragione precisa, il legame tra la Spagna e l’ Italia non è casuale se parliamo del barocco leccese, questo stile infatti è molto influenzato dal plateresco spagnolo, uno stile artistico, fiorito in Spagna nel XV e nel XVI secolo, caratterizzato da molti ornamenti e composto partendo dall’ imitazione dei lavori di argenteria (in spagnolo “plata”), da cui appunto proviene il nome di plateresco. Pochi decenni dopo la presenza spagnola nel Regno di Napoli contribuisce in maniera decisiva allo sdoganamento di questo gusto per i dettagli e le decorazioni e quindi alla nascita del barocco leccese. Ci sono anche altre ragioni storiche alla base di questa primavera barocca nel Tacco d’ Italia, come ad esempio l’ esito della Battaglia di Lepanto del 1571, che indebolisce notevolmente le armate dell’ Impero Ottomano, rendendo il Sud dell’ Italia meno esposto alle scorribande dei pirati ed alle invasioni del nemico. Infine la Controriforma, ovvero un’ insieme di misure di rinnovamento spirituale, teologico e liturgico con le quali la Chiesa cattolica riformò le proprie istituzioni dopo il Concilio di Trento. A seguito di questi provvedimenti furono molte le chiese riadattate a livello architettonico per essere più funzionali alle nuove liturgie post-tridentine, molti edifici di costruzione medievale furono "rinnovati", mediante abbellimenti con stucchi, marmi e decorazioni varie, che fecero assumere a queste l'aspetto di chiese barocche. Ma il barocco ebbe particolare fortuna in Salento anche grazie alla qualità della pietra locale impiegata: la pietra leccese, di cui abbiamo già parlato in questo blog, ovvero un calcare tenero e compatto dai toni caldi e dorati adatto alla lavorazione con lo scalpellino.

 

Il barocco leccese risulta subito riconoscibile anche agli spettatori meno esperti, per via delle sue sgargianti decorazioni che caratterizzano i rivestimenti degli edifici: esuberanze appunto barocche, motivi floreali, figure umane ed animali mitologici, fregi e stemmi. Tutta questa ricchezza di elementi decorativi agricoli e floreali è una metafora della "grazia di Dio" e della bellezza del creato. Tra i frutti più ricorrenti si incontrano la pigna, simbolo di fertilità e di abbondanza, la mela, simbolo della tentazione ma anche della redenzione, la melagrana, simbolo della Resurrezione, la vite, attributo del Cristo.

 

Questo nuovo stile che dapprima aveva interessato solo gli edifici sacri e nobili, si diffuse poi anche nell’ architettura civile e dunque i suoi i motivi floreali, le figure, gli animali mitologici, i fregi e gli stemmi trionfarono anche sulle facciate, sui balconi e sui portali degli edifici privati.

 

Fino ad allora Lecce era stata una città fortificata, quasi austera, raccolta attorno alla mole severa del Castello di Carlo V, ma in dopo meno di due secoli si trasformò notevolmente, diventando quel “… carnevale di pietra, che simula in mille guise l’ infinito” raccontata da Bodini nei suoi bellissimi versi. Nel prossimo articolo di questo blog vedremo di analizzare nel dettaglio ognuno degli edifici frutto di questa mirabile rivoluzione architettonica.