Introduzione e diffusione del tabacco in Italia

La coltivazione del tabacco nel tacco d’Italia ha origini piuttosto remote e ha caratterizzato per lungo tempo la vita di tante famiglie e di tanti contadini del Salento. Secondo le fonti, si coltivava il tabacco già nel Settecento. Esistevano, ai tempi, due tipologie di tabacco: il Cattaro (coltivato a secco e irrigato) e il Brasile (irrigato costantemente). Entrambi si usavano come tabacco da fiuto (la maggior parte) e da fumo (per la produzione di Sigari), ed erano molto apprezzati dall’alta società e dal clero del tempo.

I primissimi coltivatori di tabacco furono i frati mendicanti, ma furono i mercanti veneziani e gli spagnoli ad introdurlo in Terra d’Otranto. Quando i volumi prodotti divennero davvero ingenti, la coltivazione passò nelle mani del Regno d’Italia. Questo accadde all’inizio dell’Ottocento, quando il tabacco era ampiamente diffuso nell’Agro di Lecce, in qualche paesino giù verso il Capo di Leuca, ma anche verso Mesagne, Oria, Francavilla.

Con l’avvento del monopolio governativo del tabacco, le cose cambiarono. I contadini del Salento smisero di vedere il tabacco come fonte di guadagno: il vero guadagno andava ai proprietari terrieri e allo stato. E le ore di lavoro investite nella produzione del tabacco erano così tante da non ricevere un’adeguata ricompensa economica. Tra le varietà di cattaro in Salento spiccava quello leccese. Era una pianta più bassa delle altre, con 22 foglie, il mercato ne amava particolarmente la fragranza e l’aroma. Anche il cattaro riccio paesano era molto apprezzato: le sue foglie erano più lunghe. Oltre a queste due tipologie, se ne aggiunsero ben presto altre, provenienti dall’America, ma anche dall’Erzegovina.

La storia sarebbe ancora lunga e articolata. Ma per essere sintetici, giungiamo al Novecento. In questo periodo storico, erano poche le famiglie della provincia di Lecce ad avere le concessioni per la coltivazione e lavorazione del tabacco. Durante la Prima Guerra Mondiale, la lavorazione del tabacco fu affidata alle donne, le famose “tabacchine”, che venivano impiegate occasionalmente e senza troppe garanzie. Non a caso, non mancarono le agitazioni, per chiedere che l’importo del salario a cottimo fosse rivisto.

 

La vita delle tabacchine e dei contadini del Salento

Con l’andare del tempo, e anche come conseguenza della crisi dell’olivo e della vite di quel periodo, l’industria del tabacco continuò ad espandersi. Da un lato era un vantaggio: soprattutto nei mesi estivi, la coltivazione del tabacco consentiva di arginare notevolmente il problema della disoccupazione. Dall’altro, le tabacchine continuavano a percepire una paga esigua, con la quale contribuivano minimamente al reddito familiare. E non solo: si lavorava quasi sempre in condizioni igienico sanitarie precarie. La vita in tabacchificio era pesante e la maestra (un supervisore donna) controllava che nessuno parlasse o perdesse tempo in alcun modo. La minaccia era sempre quella del licenziamento.

 

Dalla semina alla raccolta, fino all’infilatura delle foglie

Il ciclo di coltivazione del tabacco ad opera delle tabacchine nel Salento iniziava con il processo di semina, che richiedeva mani esperte, e avveniva nelle cosiddette “ruddhre”, ovvero una porzione di terreno adibita alla coltivazione. Questo rettangolo di terra veniva lavorata per essere appianata, con il rastrello, al cui interno si depositava una distesa di concime organico. Successivamente si gettavano i semi di tabacco, miscelati con la cenere, sulla terra per poi essere annaffiati. Una volta pronte per la coltivazione del tabacco, si estirpavano dalla radice e poi raccolte nelle “cascette”, piccole casse in legno, coperte da un telo juta e poi trapiantate su un nuovo suolo.

La raccolta avveniva alle prime luci dell’alba: un lavoro che coinvolgeva famiglie intere, persino i bambini. In particolare, si effettuavano dai 4 ai 5 cicli per la raccolta delle foglie di tabacco, in modo da pulire perfettamente tutta la pianta. Il tutto, all’incirca, in una settimana.

Una volta raccolte e arrivati a casa ci si disponeva seduti in cerchio ed iniziava la fase fondamentale dell’infilatura, la “’nfilatura”. Questo processo consisteva nell’infilare le foglie lungo un grosso ago di acciaio (la “cuceddhra”) e nella cruna si passava poi lo spago. Una volta che si riempivano tutti i fili con le foglie di tabacco, venivano appesi ai telai e finalmente poteva iniziare la fase di essiccazione al sole. Il telaio prende il nome di “tiralettu” e, una volta tramontato il sole, venivano portati in casa.

Il tabacco, una volta pronto, si consegnava alla “Manifattura te lu tabbaccu” in casse di legno coperte da teli in juta.

 

La lavorazione nel tabacchificio

Le tabacchine iniziavano, solitamente, il loro compito verso la fine del mese di novembre quando le foglie di tabacco erano ormai secche. Si occupavano della loro cernita, dividendole all’interno di particolari casse in legno per colore e in base alle qualità.

Le foglie di tabacco venivano messe insieme e divise in piccoli mazzetti per poi essere pressate, mentre le altre tabacchine formavano le cosiddette “ballette”, sistemate secondo il peso e il tipo della qualità del tabacco. Una volta terminata questa fase si passava alla pressatura, dopo di che le foglie venivano messe in una stufa a legna per far maturare il tabacco con il calore.

Vi era un’operaia che supervisionava tutte queste operazioni, ovvero “la mescia” per controllare che non ci fossero intoppi e imperfezioni nei processi di lavorazione. Le ballette venivano messe in una stanza a contatto con lo zolfo, per evitare la corrosione e dopo qualche giorno posizionate nel deposito per un’altra ispezione da parte della mescia. Le foglie di tabacco ottenute si sbriciolavano per creare sigarette e, il tabacco ottenuto, veniva condotto nelle fabbriche del Monopolio al fine di valutare il gusto e il sapore.

 

Il settore comincia a dare segni di sofferenza

Dal 1935 in poi, tuttavia, il settore cominciò a dare segni di sofferenza. L’intero settore diede segno di decadimento per una vasta gamma di ragioni: l’introduzione di varietà qualitativamente scarse, la scarsa capacità commerciale, la scelta di terreni inadatti, le condizioni meteo sfavorevoli, la scarsa preparazione sul fronte agricolo, il mancato uso di concimi e via dicendo. Senza contare che la vite e l’ulivo stavano guadagnando terreno. Verso la fine degli anni Trenta del Novecento si cominciò a riorganizzare il lavoro: dai metodi di imballaggio alla lavorazione stessa delle foglie, si cambiarono metodi e talvolta si cominciò anche ad introdurre un minimo di meccanizzazione. Queste scelte portarono ad una riduzione della manodopera e delle ore di lavoro necessarie, il che sfociò in una serie di rivolte operaie e di attività sindacali.

Seguì una ripresa del settore, grazie anche ad una serie di provvedimenti emessi specificatamente a favore dei tabacchicoltori. Si giunse quindi agli anni Sessanta del Novecento, quando fece capolino la peronospora del tabacco, una malattia delle piante che danneggiò gravemente il settore.

Nel 1970 cadde il regime di Monopolio: i tabacchicoltori furono liberati ma, di fatto, lasciati allo sbando. Fu, di fatto, il colpo di grazia al settore, che nel giro di breve tempo terminò la sua storia.

 

I Tabacchifici e la loro rinascita

Una storia recente piuttosto dimenticata, nonostante le ricadute socio-economiche e culturali, che ha lasciato un incredibile patrimonio architettonico dismesso, oggi per lo più in rovina sul territorio Salentino. Molti sono edifici che passano quasi inosservati, dalla struttura regolare e semplice, realizzati in tufo, spesso anche voltati ma di piccola dimensione, a volte di nuova costruzione, e a volte realizzati sulla base di edifici preesistenti, come casolari o masserie. Tuttavia, vi sono anche magazzini superiori ai 1.000 mq dove si concentrava la lavorazione e l’immagazzinamento del tabacco che confluiva da estese coltivazioni. Opifici che sono dei veri landmark nella prima periferia dei comuni del Salento, fino ad arrivare alle grandi opere realizzate a Lecce, le “Reali manifatture tabacchi”. Cosa ne è oggi di questa archeologia agro-industriale? Di seguito alcuni approcci per il riuso e la riconversione di un patrimonio architettonico diffuso sul territorio, che cerca risposte specifiche secondo i casi nei finanziamenti regionali con fondi europei legati al turismo, nel Piano paesaggistico territoriale regionale che lo cataloga nel “Sistema degli opifici agro-alimentari”, nella legge regionale del 2015 sulla “Valorizzazione del patrimonio di archeologia industriale”, in accordi di programma in variante del PRG. Ma, soprattutto, trattasi di un patrimonio che vorrebbe trovare un diverso futuro con l’aiuto dei privati e, ancor più, delle istituzioni, perché da problema si possa trasformare in una grande opportunità territoriale, come lo sono già stati per la Puglia masserie e manufatti rurali.

Nei pressi del comune di Veglie, tra il 1926 e il 1928, nell’ambito delle bonifiche dell’agro salentino volute dal regime fascista, è stato fondato appositamente “Monteruga”, un vero e proprio borgo, ampliando una masseria pre-esistente, il cui scopo era quello di creare un florido centro di produzione del tabacco, nonché dell’olio e del vino. La sua architettura rispecchia quella tradizionale dei villaggi della zona nei primi decenni del Novecento. Ad attrarre è il fatto che l’intero villaggio pare essersi improvvisamente fermato al secolo scorso e, pur colpito dall’inevitabile degrado del tempo, risulta nel suo complesso abbastanza intatto e ben preservato. Troviamo ancora il Magazzino Tabacchi, l’oleificio, i silos, le Chiesa di Sant’Antonio e le case coloniche. Verso la fine degli anni Settanta del Novecento arrivò a contare fino a 800 abitanti, per poi subire un rapido e drastico declino nel corso del decennio successivo, a causa della privatizzazione dell’azienda e della spartizione dei terreni. Il Ministero della Cultura lo ha sottoposto a vincolo quale “sito di interesse particolarmente importante”, e la speranza è che questo luogo venga recuperato al più presto.

Alcuni recenti esempi di ex tabacchifici che hanno trovato nuovo impiego, a seguito di un’attenta e rispettosa ristrutturazione, sono: “La Masseria Diso – Il Tabacchificio”, uno dei più rinomati esempi di ospitalità di lusso in questo tipo di preesistenza; “L’ex Tabacchificio di Taurisano”, ora adibito a luogo d’esposizione per opere di artisti contemporanei; “Il Tabacchificio – Hotel” sito a Gagliano del Capo.

Altri ex Tabacchifici, invece, sono in attesa di essere riportati a nuova vita, ed è il caso, attualissimo, di un ex Tabacchificio sito nel sud Salento, a Castrignano del Capo. Si tratta di una struttura risalente al 1800, il cui nucleo originario è quello di una masseria risalente al 1600, interamente realizzata con volte a botte e a stella, distribuita su due piani. E’ in corso la realizzazione del progetto per il recupero e la conversione in una struttura ricettiva di lusso, con annesso ristorante, nel rispetto dell’architettura locale e delle tradizioni del luogo.

 

Il Futuro:

Il recupero degli ex tabacchifici non è solo una questione di restauro architettonico, ma anche di preservazione della memoria collettiva e di promozione dello sviluppo sostenibile. Con il sostegno delle istituzioni e degli investitori privati, questi edifici possono diventare motori di crescita per il Salento, trasformando una pagina di storia industriale in un nuovo capitolo di prosperità e innovazione.