È alla cultura greca che alcuni studiosi fanno risalire l’origine dell’arcaico rito coreutico-catartico del tarantismo, in cui una persona si dimena al ritmo della musica sino a liberarsi dal veleno del ragno che, in teoria, l’ha morsa. Vi è chi l’avvicina alle menadi greche, chi al mito della vergine tessitrice trasformata da Atena in ragno, Aracne; vi è ancora chi riconosce una probabile derivazione greca, ma non menadica, e chi sottolinea, invece, i presunti legami del tarantismo con lo scontro tra due culture – quella islamica e quella cristiana – ai tempi delle crociate, quando il Salento era terra di approdo e partenza per i cavalieri diretti verso le “terre degli infedeli”.

Ma, al di là delle origini incerte, che forse potrebbero contemplare ciascuna delle ipotesi formulate dagli studiosi, cosa è davvero il tarantismo? E come venne percepito nel corso dei secoli?

 

Le prime comparse del fenomeno

Del tarantismo già si parla nel periodo compreso tra il IX e il XIV secolo, e il più antico documento che fornisce una testimonianza a tal riguardo è il Sertum papale de Venenis, redatto nel 1362, il quale afferma che «coloro che sono morsi dalla tarantula traggono massimo diletto da questa o quella musica». A parlarne sarà, negli stessi anni, anche il medico Cristoforo degli Onesti in un trattato, De venenis, e perfino Leonardo da Vinci inserirà il fenomeno tra le sue riflessioni.

A quell’epoca il tarantismo si era ormai diffuso in tutta l’Italia meridionale, in forme a volte leggermente diverse tra di loro (per esempio la giocosa tarantella napoletana), e prevedeva il ricorso a danze vivaci e ritmate per guarire il morso di un ragno, che sembrava colpire particolarmente le donne. Tramite la musica si cercava perciò di curare chi mostrava i segni di un’intossicazione da veleno di ragno.

Per questo, nel corso della storia, alcuni scienziati si concentrarono più l’aspetto della terapia musicale, ossia sugli effetti che la danza e la musica avevano sul corpo e sulla mente, mentre i medici indagarono il carattere della malattia e le cause di tale disturbo. Si chiesero infatti se alla base delle persone cosiddette tarantate vi fosse uno stato tossico derivante dal morso di un aracnide o fosse, invece, un disordine di natura psichica. Perché, se da un lato è vero che ragni quali il Latrodectus tredecimguttatus o la Lycosa tarantula potevano, con un morso, indurre contrazioni e spasmi muscolari, era pure strano che tale fenomeno affliggesse prevalentemente le donne. E d’estate, a lavorare nei campi o con le foglie di tabacco, non vi erano solo le figure femminili, ma anche gli uomini, che più spesso sembravano immuni allo stato di trance, allucinazioni e spasmi.

Il discorso si complicò ancor di più con l’intervento della Chiesa, che cercò di “addomesticare” al culto di San Paolo quello che pareva essere un rito pagano: richiamandosi agli Atti degli Apostoli, in cui si afferma che san Paolo uscì indenne dal morso di una vipera, e calendarizzando la festa di guarigione definitiva al 29 giugno, giorno del santo, cercò quindi di unire fede e superstizione, paura e speranza. E così, nelle pratiche del tarantismo, studiate e documentate a Galatina (Lecce) dall’etnologo Ernesto De Martino e dalla sua équipe nl rito del tarantismo.

In cosa consisteva quindi il rito? Come testimoniano De Martino nelle zone più povere e arretrate del Salento, alcune donne iniziavano a percepire i sintomi del morso: malessere, isterismo, convulsioni. Per cercare di guarirle si praticava una sorta di esorcismo musicale-coreutico casalingo, svolto allora il 28 giugno: le tarantate erano disposte in un vano oscuro della casa – nei primi tempi il rito avveniva all’aperto –, e giacevano su lenzuola adagiate sul pavimento. Accanto a loro erano collocati un cestino per le offerte e immagini di san Pietro e san Paolo dai colori vistosi. Non solo: le tarantate – erano sempre perlopiù donne – potevano scegliere un fazzoletto da legare in vita o tenere in mano, di un colore simbolico: rosso, o verde, o blu. Questo richiamava il colore dell’aracnide che, in teoria, le aveva fatte ammalare. Da lì partiva la musica, in genere rappresentata da un violino, una fisarmonica e un tamburello, strumenti tipici della zona. Gli esperti suonatori intonavano le prime note di una pizzica, o di una tarantella, e la tarantata iniziava ad agitarsi solo al ritmo della composizione che sentiva consona a eliminare il suo malessere. Si dimenava quindi nello spazio del lenzuolo, si alzava, si rotolava a terra, con movimenti convulsi e volti a eliminare il veleno (reale o simbolico). A volte riusciva a guarire, spesso no. Si rivolgeva quindi a un’effigie di san Paolo, dialogandovi e chiedendo quale potesse essere la cura per il suo stato. Da fuori la gente assisteva a tale sfrenata danza.

Il 29 giugno, il giorno seguente – siamo sempre a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta –, donne malate confluivano da tutto il Salento alla Cappella di San Paolo a Galatina, dove bevevano dal pozzo l’acqua destinata a far scomparire i sintomi. Si assisteva a scene di delirio, malessere, urla, in gran parte funzionali al rito di guarigione. Seguivano poi le feste, a ritmo della musica. Alcune donne si riavevano, altre si preparavano a essere morse di nuovo l’anno seguente. Cosa c’era dietro il tarantismo?

Le spiegazioni al fenomeno del tarantismo potevano e possono essere molteplici: escluso probabilmente il morso da parte del ragno, De Martino suggeriva che potesse essere legato a uno stato di malessere interiore, all’infelicità per le condizioni di vita infime, al bisogno d’attenzione. Nella psichiatria si riteneva e ritiene che potesse essere associato pure a conflitti latenti dell’inconscio e a una costrizione di tipo morale: alcuni fenomeni e coincidenze tipici del tarantismo, tra cui la giovane età delle malate, la recrudescenza ciclica, l’ora del giorno in cui sarebbe avvenuto il morso (le dodici) e l’esorcismo avvenuto grazie alla musica e a san Paolo.

Al di là delle vere cause che spingessero le tarantate, del tarantismo autentico sono rimasti il ritmo meraviglioso che continua a coinvolgere ed esaltare, le melodie travolgenti, nonché l’effetto catartico e liberatorio che solo pizzica e tarantella riescono ancora oggi a sprigionare.

 

La Cappella di San Paolo e il mito del Tarantismo

Tra le numerose Chiese che troviamo a Galatina, merita una certa attenzione la Chiesa di Pietro e Paolo, santi patroni della città, situata a pochi passi dal centro. La Chiesa è stata completamente restaurata, ma è ancora un’importante testimonianza artistica e storica di notevole spessore.

Nelle adiacenze della Chiesa, si trova la Cappella di San Paolo, conosciuta dai più come Cappella delle Tarantate, ed è un edificio di culto risalente al XVIII secolo incorporato al Palazzo Tondi, nel centro di Galatina. Piccola e semplice architettura, presenta una facciata semplice, in stile barocco-leccese.

La leggenda vuole che gli Apostoli Pietro e Paolo, durante il loro viaggio in giro per il mondo, si fermarono a Galatina e furono ospitati da un pio galatinese nella propria dimora, che sorgeva dove oggi si trova la Cappella. Per ringraziarlo della cortese ospitalità, San Paolo conferì all’uomo e ai suoi discendenti il potere di guarire tutti coloro che fossero stati morsi dai ragni velenosi, definiti in dialetto “tarante”. Semplicemente bevendo l’acqua del pozzo, posto all’interno del cortile della casa e facendo il segno della croce sulla ferita, si poteva sconfiggere questa brutale malattia.

All’interno della chiesetta, nell’unico altare in pietra leccese, è degno di attenzione il dipinto San Paolo e il tarantolato del pittore ruffanese Saverio Lillo (Ruffano 1734 – ivi 1796). La tela è una delle ultime opere del pittore: in basso a destra vi è la firma e la data. La composizione è dominata dalla figura di San Paolo avvolta da ampi panneggi, la quale si staglia sullo sfondo raffigurante , un tratto di costa, dove campeggia, a sinistra sull’alta linea dell’orizzonte, una vela. Il luminoso, severo volto del santo, delineato da una nera barba e folta capigliatura, è diretto verso lo spettatore. La mano sinistra regge il manto e sul braccio è appoggiata una lunga spada, mentre la destra indica un angelo che regge un grosso libro aperto, sulle cui pagine ci sono dei riferimenti alle lettere scritte dall’Apostolo agli Efesini, Romani e Corinzi. La singolare narrazione pittorica di Saverio Lillo è in relazione con il fenomeno del tarantismo: sulla sinistra in primo piano un uomo malato (tarantato), mollemente adagiato, è sorretto da una donna ed è nell’attesa di bere l’acqua prodigiosa del pozzo offerta da una donna inginocchiata, la quale stringe tra le mani un secchiello legato ad una fune. Il dramma dell’uomo è forse dovuto alla serpe, allo scorpione e alla tarantola, animali velenosi raffigurati proprio vicino ai suoi piedi e a quelli di San Paolo. Nel dipinto, inoltre, compaiono elementi che alludono all’episodio dell’Apostolo sull’isola di Malta: in alto a sinistra, sulla linea dell’orizzonte, si scorge una barca a vela, mentre la vipera strisciante è a destra, in prossimità dei piedi del Santo. I numerosi dettagli iconografici nel dipinto (il tarantolato sorretto da una donna, il secchio con l’acqua prodigiosa attinta dal pozzo galatinese, gli animali velenosi), dovevano illustrare ai devoti le capacità taumaturgiche del santo guaritore dai morsi velenosi.

Anche l’altro dipinto murale di San Paolo, situato nella nicchia della seconda vera del pozzo miracoloso (nel cortile del palazzo), è riconducibile agli stilemi del Lillo: dall’analisi stilistica con altre opere del pittore, si è riscontrato che l’espressione del volto del santo corrisponde ai lineamenti tipici adottati dall’artista ruffanese. È presumibilmente coevo alla tela (1795) posta nella cappella. Classicamente composta si presenta la figura di San Paolo: posto sempre in piedi, con la mano sinistra che regge un libro e una spada, mentre l’altra è alzata vero il cielo in segno di predicazione.

 

Il fenomeno del tarantismo rappresenta un intreccio complesso di credenze, rituali e pratiche che hanno attraversato i secoli, riflettendo non solo le condizioni sociali e culturali del Salento ma anche l’interazione tra tradizioni locali e influenze esterne. Sebbene le origini esatte del tarantismo restino avvolte nel mistero e le sue interpretazioni varino tra spiegazioni scientifiche e culturali, ciò che emerge chiaramente è la funzione catartica e liberatoria di questo rito. Le danze e le melodie che hanno accompagnato le tarantate sono diventate simbolo di una tradizione viva e pulsante, capace di evocare e trasmettere l’intensità emotiva e il dinamismo dI quei tempi.

 

La Cappella di San Paolo a Galatina, con la sua storia e le sue leggende, rimane un testimone prezioso di questo patrimonio immateriale, custodendo l’essenza di una tradizione che ha saputo evolversi e resistere nel tempo. Attraverso l’arte e la musica, il tarantismo continua ad affascinare e coinvolgere, offrendo uno spaccato della resilienza e della creatività umana di fronte alle difficoltà e alle incertezze. Così, anche se le spiegazioni scientifiche possono aver chiarito alcuni aspetti del fenomeno, il fascino e la potenza evocativa della pizzica e della tarantella persistono, mantenendo viva una parte fondamentale della cultura salentina.